I materiali derivanti da demolizioni edili devono considerarsi rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all’abbandono.

L’eventuale recupero è subordinato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati comunque cose di cui il detentore ha l’intenzione di disfarsi. Mentre il loro assoggettamento  a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria, implica la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge.

 Corte di Cassazione, sez terza penale, sentenza 8 luglio 2015, n. 29084/2015, Pres. A. Franco, Rel. L. Ramacci


A margine

Con la sentenza in commento, la Terza sezione della Corte di Cassazione penale ha affrontato il tema dei materiali da demolizione come rifiuti, specificando quali siano i presupposti per un’eventuale esclusione dal regime dei rifiuti.

Nel caso di specie, i ricorrenti impugnavano un’ordinanza del Tribunale di Messina, nella quale era stata rigettata la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. di Patti con riguardo un terreno di 4.000 mq di proprietà degli stessi ricorrenti. Ad entrambi i proprietari veniva contestato il reato di cui all’art. 256, commi 1[1] e 3[2] del T.U. Ambiente, mentre ad uno solo anche la contravvenzione disciplinata dall’art. 734 c.p[3].

Va, innanzitutto, premesso che il terreno in questione era sottoposto a vincolo idrogeologico, paesaggistico ed ambientale. Inoltre, i materiali rinvenuti erano da ricondursi ad inerti da demolizioni edili, uniti a terre e rocce da scavo. Il materiale era stato ammucchiato e spianato, nell’arco temporale di diversi anni, in apparenza mediante l’utilizzo di alcune macchine.

La Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato.

L’applicabilità delle disposizioni derogatrici alla disciplina ordinaria dei rifiuti  esige la presenza di fondamentali requisiti, poiché prevede l’applicazione di un regime gestionale più favorevole. Data la natura eccezionale di tali norme, l’onere di dimostrarne l’effettiva sussistenza è a carico di chi la invoca. Questo principio basilare è stato proclamato più volte dalla giurisprudenza della Suprema Corte, con riferimento alle diverse discipline derogatorie in tema dei rifiuti, tra cui le sentenze n. 17453/2012 e 16727/2011 in materia di sottoprodotti, la sentenza n. 35138/2008 in materia di rocce e terre da scavo e la n. 30647/2004 in materia di deposito temporaneo.

Con particolare riguardo al caso qui in esame, la Corte ha affermato il principio secondo cui i materiali derivanti da demolizioni edili devono considerarsi rifiuti, e conseguentemente sottostare alla relativa disciplina, se è oggettiva l’intenzione del detentore di abbandonarli; per poter derogare alla normativa sui rifiuti è necessaria la presenza di tutti i requisiti previsti dalla disciplina più favorevole, il cui onere della prova è in capo all’interessato.

Inoltre, ai fini della configurabilità dei reati contestati, i Giudici di legittimità hanno specificato che non è necessario accertare, mediante consulenza tecnica, la natura, la composizione ed il peso esatto dei materiali quando è possibile verificarli attraverso l’esame diretto. Nell’ipotesi al vaglio della Suprema Corte, dalle stesse caratteristiche dei materiali risultava agevole riscontrare la provenienza da opere di demolizione e la classificazione quali rifiuti, poiché si trattava di materiali dei quali si è soliti disfarsi (fatta salva la possibilità di un successivo reimpiego come sottoprodotto, per cui, però, vi è l’onere della prova da parte dell’interessato). La classificazione della tipologia di tali rifiuti è rinvenibile nel Codice Ambientale, all’art. 184, comma 3, lettera b), che definisce rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché da attività di scavo.

Dott.ssa Alessandra Crepaldi


[1] Art. 256, comma 1 d. lgs. 152/2006 afferma che: “Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione   di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli  208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito:

  1. a) con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi “.
  2. b) con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti pericolosi”.

[2] Art. 256, comma 3 d. lgs. 152/2006 disciplina che: “Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a due  anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro. Si applica la pena dell’arresto da uno a tre  anni e dell’ammenda da euro cinquemiladuecento a euro cinquantaduemila se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi. Alla sentenza di condanna o alla sentenza  emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura  penale,  consegue la confisca dell’area sulla quale è realizzata la discarica  abusiva se di proprietà dell’autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi”.

[3] Art. 734 c.p. prevede che: “Chiunque, mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità, è punito con l’ammenda da euro 1.032 a euro 6.197.”


Stampa articolo