- Moltocomuni - https://www.moltocomuni.it -

Il Comune deve riaffidare attraverso il mercato il servizio svolto da società partecipate dichiarate insolventi6 min read

Il fallimento della società a partecipazione pubblica determina la cessazione dell’attività già esercitata dalla stessa ricordando, tuttavia che, la Legge fallimentare prevede, eccezionalmente, la possibilità di un esercizio provvisorio in toto o limitatamente a singoli rami dell’impresa, allo scopo di salvaguardare l’avviamento aziendale e sempre che non arrechi pregiudizio ai creditori.

Corte dei conti, sez. regionale di controllo per la Sicilia, deliberazione 20 settembre 2017, n. 143 [1], Presidente Albo, Relatore Alessandro

A margine

Nella vicenda, un Comune chiede alla Corte dei conti di pronunciarsi in merito alla corretta interpretazione degli articoli 14, comma 6, e 24 del decreto legislativo n. 175/2016 [2](Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica). In particolare, chiede di conoscere l’avviso della Sezione in ordine alla possibilità che l’ente, nell’ambito dell’attività di ricognizione straordinaria delle proprie partecipazioni ai sensi dell’art. 24 del citato Testo unico [2], preveda la dismissione delle società che versino nella condizione di cui all’art. 14, comma 6, del medesimo decreto, a mente del quale è vietato alle amministrazioni di costituire nuove società ovvero di acquisire o mantenere partecipazioni societarie nei medesimi settori in cui hanno operato società partecipate dichiarate fallite.

La Corte ricorda che l’art. 14, comma 6, del Testo unico [2], prevede che “Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita”.

La norma di colloca all’interno della disciplina più generale delle “crisi di impresa delle società a partecipazione pubblica” e il citato art. 14 ribadisce espressamente:

  • l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi di cui al decreto legislativo n. 270/1999 [3], e al decreto-legge n. 347/2003 [4], convertito, con modificazioni, dalla legge n. 39/2004 [5](comma 1);
  • l’obbligo di adottare tempestivamente gli interventi atti a scongiurare le crisi d’impresa e ad assicurare il risanamento dell’ente (commi 2 e 3);
  • il divieto di interventi di “mero soccorso finanziario” (commi 4 e 5).

In proposito la Corte evidenzia il dovere degli amministratori di monitorare la situazione finanziaria della società e di prevenire e gestire tempestivamente le situazioni di crisi aziendali, con ogni conseguenza in termini di responsabilità per eventuali ipotesi di danno arrecato al patrimonio societario o, direttamente, a quello pubblico.

Altro principio immanente è quello che vieta di detenere partecipazioni in soggetti sistematicamente in perdita o di fatto insolventi, così come non sono assentiti interventi di mero soccorso finanziario preordinati ad occultare o alleggerire momentaneamente tale condizione.

La ratio della disposizione finale di divieto (comma 6) che viene in rilievo nel quesito del Comune attiene, invece, a una fase successiva al monitoraggio ed alla prevenzione delle crisi aziendali ed è, segnatamente, quella di obbligare l’ente pubblico a ricorrere al mercato una volta che si sia verificato un “fallimento dell’intervento pubblico”, inibendo la possibilità stessa di costituire o mantenere partecipazioni societarie operanti nell’ambito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società a controllo pubblico già titolare di affidamento diretto.

Su un piano diverso, quello della pianificazione e del necessario momento ricognitivo e decisionale, opera la disposizione di cui all’art. 24 del TUSPP [2] sulla “revisione straordinaria delle partecipazioni”. Si tratta di una norma di sistema a mente della quale: “Le partecipazioni detenute, direttamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del presente decreto in società non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, ovvero che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, o che ricadono in una delle ipotesi di cui all’articolo 20, comma 2, sono alienate o sono oggetto delle misure di cui all’articolo 20, commi 1 e 2. A tal fine, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ciascuna amministrazione pubblica effettua con provvedimento motivato la ricognizione di tutte le partecipazioni possedute alla medesima data di entrata in vigore del presente decreto, individuando quelle che devono essere alienate”.

L’ente è pertanto chiamato ad effettuare la suddetta ricognizione in maniera coerente rispetto alle prescrizioni del Testo unico ed alle norme sopra richiamate, e senza ovviamente prescindere dai divieti di detenere o mantenere partecipazioni. I termini entro cui effettuare la ricognizione c.d. straordinaria sono peraltro prossimi alla scadenza (30 settembre 2017, alla luce del differimento contenuto nel decreto correttivo medio tempore emanato).

Occorre a questo punto rilevare che l’art. 14 del TUSPP [2] introduce un divieto che opera in modo perentorio e prescinde dalla formale determinazione dell’ente in sede di ricognizione delle partecipazioni. Si tratta, invero, di una disciplina a contenuto pubblicistico e sanzionatorio che impone all’amministrazione di dismettere la veste di imprenditore pubblico e di procedere all’esternalizzazione del servizio in conseguenza dell’insuccesso della formula societaria quale modulo organizzatorio di intervento diretto, comprovato dalla dichiarazione dello stato di insolvenza del soggetto partecipato. In definitiva, il “fallimento” dell’intervento pubblico è “sanzionato” con l’obbligo di ricorrere al mercato. L’amministrazione pubblica non potrà più assumere (almeno per cinque anni) l’organizzazione e la gestione del servizio attraverso la partecipazione a una società c.d. in house; dovrà, pertanto, ricorrere al mercato, avendo cura di esercitare le imprescindibili istanze di governance ossia di coltivare gli interessi pubblici sottesi al servizio esternalizzato attraverso l’esercizio del controllo c.d. contrattuale sull’attività affidata e sul servizio erogato dal soggetto esterno affidatario.

Ciò posto, in linea di principio il fallimento della società a partecipazione pubblica determina la cessazione dell’attività già esercitata dalla stessa. Appare però opportuno rammentare che la legge fallimentare (regio decreto n. 267/1942 e s.m.i.) [6]– ancorché non espressamente richiamata dalla norma del TUSPP [2] dedicata alla crisi delle imprese pubbliche – prevede eccezionalmente la possibilità di un esercizio provvisorio (art. 104), in toto o limitatamente a singoli rami dell’impresa, allo scopo di salvaguardare l’avviamento aziendale e sempre che non arrechi pregiudizio ai creditori. La ratio della prosecuzione dell’impresa con la gestione sostitutiva del curatore fallimentare, cui è preordinata la tendenziale continuazione dei contratti pendenti (art. 104, comma 7, della legge fallimentare), è infatti proprio quella di continuare a perseguire le finalità per le quali la società è stata costituita o acquisita ed è partecipata o controllata dall’amministrazione pubblica socia al fine di garantire la continuità ed evitare un’interruzione pregiudizievole per la collettività, come ad esempio la produzione di un servizio d’interesse generale, la progettazione e gestione di un’opera pubblica, l’organizzazione e gestione di un servizio pubblico, la produzione di beni e servizi strumentali all’ente partecipante (cfr. art. 4 TUSPP [2]). A tal riguardo, può apparire pertinente anche il richiamo all’art. 110, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016 [7](Codice dei contratti pubblici) che, in riferimento all’ “esecuzione” degli appalti per lavori, servizi e forniture, prevede, in linea generale, che il curatore del fallimento autorizzato all’esercizio provvisorio può “eseguire i contratti già stipulati dall’impresa fallita”. Si deve però tener conto, da un lato, dei problemi di compatibilità della “gestione sostitutiva” del curatore con l’esercizio dei poteri di “controllo analogo” da parte dell’amministrazione controllante alla cui stregua è stato originariamente consentito l’affidamento diretto, atteso che la natura della vigilanza degli organi della procedura sull’esercizio provvisorio non è corrispondente al peculiare controllo tecnico-economico del committente pubblico. Dall’altro lato, sembra pure pacifico che quest’ultimo può sempre attivare i rimedi negoziali previsti per la risoluzione del contratto di appalto o di concessione e riaffidare il servizio mediante il ricorso al mercato. Anzi, proprio la previsione di cui all’art. 14, comma 6, del TUSPP [2] induce a ritenere che, in disparte le superiori esigenze di interesse pubblico che possono giustificare eccezionalmente la salvaguardia della continuità per mezzo dell’organo della procedura (sul punto appare però opportuno un intervento normativo di coordinamento), l’ente pubblico non può mantenere partecipazioni in società dichiarate insolventi ma deve riaffidare il servizio sul mercato.