L’intervento della legge 190/2014 sulla materia del riordino delle province ha cagionato una serie di conseguenze che il legislatore non ha previsto, per quanto, se l’approvazione della legge medesima non fosse stata caratterizzata dalla solita fretta convulsa di approvare un maxiemendamento prima dell’esercizio provvisorio, fossero facilmente preventivabili.

Prima di descrivere le conseguenze che ora stanno emergendo in tutta la loro gravità e complessità, è bene ricordare brevemente la sostanza delle disposizioni della legge 190/2014. Essa ha anticipato i tempi del processo di riordino messo in piedi dalla legge 56/2014 e dai suoi provvedimenti attuativi: l’accordo Stato-regioni dell’11 settembre 2014 e il Dpcm 26 settembre 2014, istitutivi del sistema degli osservatori nazionale e regionale che hanno il compito di analizzare funzioni non fondamentali da riordinare e spese connesse, nonché attributivi alle leggi regionali del compito di stabilire (sostanzialmente in via esclusiva) quali fossero le funzioni non fondamentali da riordinare e indicare quali enti se ne dovessero fare carico.

Probabilmente Governo e Parlamento, sul finire del 2014, anche verificando l’andamento tutt’altro che spedito e fluente dei lavori degli osservatori e dei consigli regionali, ha intuito che l’attuazione della legge 56/2014 sarebbe andata molto per le lunghe.

Contestualmente, Governo e Parlamento dovevano reperire ingenti somme a copertura delle maggiori spese previste per il bilancio dello Stato dalla legge di stabilità per il 2015.

Dunque, si è pensato bene di saltare a piè pari il processo di attuazione della legge 56/2014, stabilendo prima ancora dell’esito dell’attività degli osservatori le conseguenze finanziarie. La legge 190/2014  ha stabilito che il riordino delle funzioni delle province dovesse determinare una riduzione della spesa provinciale ad essa destinata di 3 miliardi. Ed in conseguenza di ciò ha disposto l’obbligo, in capo alle province, di versare la spesa, destinata alle funzioni non fondamentali, al bilancio dello Stato, nell’importo di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016 per giungere al versamento a regime di 3 miliardi nel 2017.

Questa previsione è la fonte dello scardinamento dello schema attuativo della riforma previsto dalla legge 56/2014. Vediamone le ragioni.

Intanto, occorre osservare che la legge di stabilità non ha affatto, a differenza di quanto in molti sostengono, in primis fonti dirette del Governo, imposto “tagli” alle province. Al contrario, ha costituito un vincolo di spesa, imponendo alle province, come visto sopra, di versare risorse al bilancio dello Stato, impedendo, dunque, loro di spenderle per l’erogazione dei servizi connessi alle funzioni non fondamentali.

E’ bene chiarire che questa manovra:

  1. non crea alcun risparmio della spesa pubblica: infatti, l’ammontare totale della spesa delle province rimane costante, solo che alcune spese, a regime 3 miliardi, dovranno essere versate allo Stato. Il quale Stato utilizza tali risorse per coprire le maggiori spese previste dalla legge di stabilità. Dunque, i 3 miliardi a regime semplicemente vengono spostati dalla gestione finalizzata all’erogazione dei servizi di competenza provinciale, ad una spesa decisa e gestita direttamente dallo Stato;

  2. non comporta una riduzione dell’imposizione fiscale. Infatti, le province continueranno a dover acquisire tutte le entrate necessarie a finanziare le proprie funzioni e servizi, compresa la spesa obbligatoria del versamento forzoso dei tre miliardi a regime in favore dello Stato. Spesa, per altro, garantita proprio dal gettito provinciale della tassa sulle assicurazioni RC auto.

Ora, da analisi convergenti di più fonti (Upi e Sose, ad esempio), in effetti il complesso della spesa destinata alle funzioni non fondamentali delle province ammonta a circa 3,1 miliardi: guarda caso, la cifra che a regime le province verseranno allo Stato a proprio beneficio.

Secondo lo schema della legge 56/2014, questa imponente cifra, a seguito dei lavori di scandaglio dei servizi e delle connesse spese, avrebbe dovuto essere trasferita, gradualmente, agli enti chiamati a subentrare alle province nella gestione delle funzioni non fondamentali. L’articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), della legge 56/2014, in sostanza, disciplinano uno spostamento della spesa provinciale per funzioni non fondamentali, e del connesso finanziamento, verso gli enti che subentrano alle province nella titolarità delle funzioni stesse. Una manovra, dunque, che non prevede risparmi finanziari, infatti assenti nelle disposizioni della legge Delrio, ma una semplice riallocazione di funzioni, spesa e connesse entrate.

L’effetto finale della legge 190/2014 è il deragliamento di questo schema. Infatti, imponendo alle province di versare allo Stato le somme viste prima, la legge di stabilità 2015 disconnette totalmente il riordino delle funzioni dalla spesa connessa. In poche parole, si è forfetizzata la spesa, si è deciso che lo Stato ne fosse il destinatario sia pure con una diluizione triennale e, come conseguenza implicita, si è posto in capo ai soggetti subentranti nelle funzioni non fondamentali delle province l’onere di finanziarle.

Andiamo, dunque, alle conseguenze “impreviste” scaturenti dalle decisioni finanziare assunte dalla legge 190/2014, in contrasto con le previsioni della legge Delrio.

Finanziamento delle funzioni non fondamentali. Come visto sopra, di fatto il carico dei 3,1 miliardi della spesa corrente connessa alle funzioni non fondamentali delle province, non essendo più “spostata” dalle province (secondo lo schema della legge 56/204) agli enti destinatari del riordino, dovrà essere sostenuta da questi.

Per regioni e comuni, ovviamente principali destinatari delle funzioni provinciali (al netto di quelle connesse al mercato del lavoro delle quali si dovrebbe fare carico lo Stato con l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione), si tratterebbe di mettere mano ai bilanci e sostenere la spesa connessa.

Non è un caso che le regioni stiano ritardando di molto sia i lavori degli osservatori, sia l’approvazione delle leggi regionali finalizzate a disciplinarlo: per loro si apre, infatti, il problema del finanziamento.

Né i comuni, ovviamente, sono intenzionati a farsi carico degli oneri di spesa legati alle funzioni provinciali che potrebbero essere a loro attribuite, dalle leggi regionali.

La circolare congiunta di Funzione Pubblica e Affari regionali 1/2015, sullo specifico tema del trasferimento del personale provinciale posto in sovrannumero dalla legge 190/2014, immagina l’esistenza di una stretta connessione tra funzioni provinciali a suo tempo attribuite alle province dalle regioni, e finanziamento delle funzioni medesime.

Si tratta, tuttavia, di una valutazione estremamente superficiale. Infatti, da un lato le regioni hanno ridotto i trasferimenti per le funzioni conferite alle province da 3,7 a 2,5 miliardi nel solo quadriennio 2010-2014. In secondo luogo, molte funzioni conferite alle province non sono mai state finanziate dalle regioni. E si tratta di servizi estremamente onerosi: come quello del trasporto degli allievi disabili verso le scuole superiori, oppure l’assistenza didattica agli allievi disabili sensoriali delle scuole di ogni ordine e grado.

Porte chiuse agli idonei dei concorsi. La messa forzata in sovrannumero di circa 20.000 dipendenti delle province, ha indotto il legislatore a congelare le nuove assunzioni per gli anni 2015 e 2016 a due sole fattispecie:

  1. l’immissione in servizio dei vincitori di concorsi le cui graduatorie fossero vigenti o approvate alla data dell’1.1.2015;

  2. i dipendenti provinciali inseriti nelle liste dei soprannumerari.

Poiché la legge 190/2014 ha, come visto sopra, scardinato la logica della 56/2014, non pone più a carico delle province il finanziamento del personale che passa in mobilità verso altri enti (come previsto dall’articolo 1, comma 96, lettera a), della legge Delrio). Dunque, le mobilità dei dipendenti soprannumerari, a differenza della mobilità “ordinaria” graveranno sulle risorse assunzionali provenienti dal turn over e non saranno neutrali sul piano finanziario. Tanto è vero che, dispone la legge 190/2014, pur non concorrendo a determinare il tetto di spesa di cui all’articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 (tetto che ha perso molto del valore di indirizzo ad una spesa accorta del personale, dopo il d.l. 90/2014), sono ammissibili solo se rispettose dei vincoli finanziari e del rispetto del patto di stabilità.

Il congelamento delle assunzioni è stato in parte mitigato (non è dato valutare con quanta legittimità), dalla citata circolare 1/2015, che ammette ancora assunzioni a valere su risorse da turn-over degli anni 2012 e 2013, mobilità avviate nel 2014, assunzioni di “categorie infungibili”, come educatori di asili nido.

L’effetto complessivo, comunque, è quello di impedire per due anni l’assorbimento degli idonei (si tratta di circa 85.000 persone) facenti parte delle graduatorie dei concorsi, vanificando, pertanto, i principi e le disposizioni contenute nel d.l. 101/2013, convertito in legge 125/2013, che in nome del “mai più precariato nella pubblica amministrazione” aveva riattivato i processi di stabilizzazione e imposto alle amministrazioni di scorrere le graduatorie, prima di attivare nuovi concorsi.

Congelamento della “staffetta generazionale”. Per le medesime cause evidenziate sopra, la legge 190/2014 vanifica, almeno per gli anni 2015 e 2016, anche le disposizioni del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014.

La norma, come è noto, ha allargato, di poco, le maglie del turn over delle amministrazioni pubbliche, nell’intento di ringiovanire il più possibile la pubblica amministrazione, con l’attivazione di concorsi pubblici e la convinzione che essi fossero appannaggio soprattutto di giovani.

Il congelamento dei concorsi, evidentemente, rende praticamente impossibile per un biennio il conseguimento dei risultati previsti dal d.l. 90/2014.

Attuazione della programmazione dei fabbisogni di personale. L’obbligo di assumere esclusivamente, salvo le poche aperture ammesse dalla circolare 1/2015, le due categorie di soggetti previste dalla legge 190/2014 mette in notevole difficoltà le amministrazioni, in particolare i comuni.

Infatti, il processo di mobilità del personale soprannumerario delle province impedisce ai comuni di attuare la programmazione dell’assunzione delle figure professionali di cui hanno bisogno.

Il sistema previsto dalla legge 190/2014 prevede che i comuni e le altre amministrazioni dovranno segnalare alla Funzione Pubblica le risorse disponibili dal turn over ed i posti liberi della dotazione organica. A regime, una piattaforma informatica regolerà l’incontro tra domanda e offerta di “mobilità” dei dipendenti in sovrannumero, che saranno avviati alle amministrazioni in relazione alle disponibilità della dotazione, non in relazione al fabbisogno programmato.

Per essere chiari, se un comune avrà vacanti in dotazione organica un istruttore tecnico ed un istruttore amministrativo e programmata l’assunzione del tecnico, potrebbe vedersi arrivare forzosamente in mobilità l’amministrativo.

Dunque, per il lasso di tempo indeterminato ed interminabile necessario alla ricollocazione dei dipendenti in sovrannumero, il blocco dei concorsi pone i comuni in grande difficoltà, perché né potranno attivare mobilità, né potranno indire nuovi concorsi che consumino le risorse del turn over, pur destinati a coprire fabbisogni accertati di personale o figure non esistenti o difficilmente reperibili presso le province (cuochi, educatori di asili nido, necrofori, letturisti di acquedotto, operatori cinematografici, scenografi e tantissime altre figure professionali del mondo estremamente variegato dei servizi gestiti dai comuni).

E’ immaginabile, allora, che i comuni estenderanno al parossismo il concetto di “categorie infungibili” un po’ troppo indeterminato, posto dalla circolare 1/2015, esponendosi, però, alla sanzione grave della nullità dell’attivazione di rapporti di lavoro in contrasto con le disposizioni della legge 190/2014.

Accollo di maggiori spese per le province. L’assenza di legame tra le mobilità e il riordino delle funzioni causato dalla legge 190/2014 comporta che le province dovranno sostenere per lungo tempo la spesa per parecchio del personale in sovrannumero.

Ciò avverrà perché i sistemi di mobilità appaiono farraginosi e tutt’altro che spediti: potrebbero ricevere un impulso dall’indicazione contenuta nella legge 190/2014 che ammette le mobilità interamente riservate al personale di ruolo delle province (non specificando espressamente che si dovrebbe intendere il personale soprannumerario).

In ogni caso, il rinvio sine die della mobilità di circa 10.000 dipendenti, tra addetti ai servizi per il lavoro (7.500 circa, destinati all’ancora non costituita Agenzia Nazionale per l’Occupazione) e ai corpi di polizia provinciale (2.500 circa destinati ad una ancora meno nota “riforma” delle forze di polizia), impone alle province di sostenere una spesa di quasi 400 milioni praticamente per tutto il 2015. Il che evidentemente contribuirà ad un peggioramento significativo delle già compromesse condizioni finanziarie delle province, private della possibilità di una vera mobilità “di massa” tale da far fuoriuscire dai propri organici celermente anche i 10.000 dipendenti circa destinati ai percorsi di mobilità “particolari” indicati dalla circolare 1/2015.

Luigi Oliveri


Stampa articolo