La modifica unilaterale del canone demaniale marittimo dovuto in dipendenza di una concessione da parte della Pubblica Amministrazione, ancorché avvenuta in applicazione di una norma di legge, non può spingersi sino ad alterare, senza preavviso, l’equilibrio delle prestazioni e, quindi, sino a modificare significativamente i termini economici del rapporto tra le parti.

A fronte di una significativa modifica per atti o norme sopravvenute, il concessionario ha diritto, pertanto, anche di sciogliersi dal rapporto.

T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Sez. I^, sentenza 21 gennaio 2014, n° 18, Pres. ed Est.  Umberto Zuballi.

Il caso

Una Società commerciale è titolare di concessione demaniale marittima della durata di cinquant’anni, a decorrere dal 1983, per la gestione di un approdo per il diporto nautico.

L’atto di concessione impone alla Società di realizzare strutture portuali nuove per la qualificazione e la valorizzazione dell’ambito, strutture che, naturalmente, al termine della concessione rimarranno di proprietà statale. Nel giugno 2013 il Servizio Demanio regionale applica a quella concessione il disposto dei commi 251 e 252 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n° 296, che, com’è noto, ha elevato notevolmente rispetto al passato l’importo dei canoni, soprattutto con riferimento alle strutture fisse a destinazione imprenditoriale realizzate nell’area in concessione.

La Società impugna al T.A.R. – che, poi, a fronte dell’eccezione regionale di difetto di giurisdizione conferma la giurisdizione dell’A.G.A. relativamente alle controversie sulla rivalutazione dei canoni – lamentando sia la mancanza di preventivo avvio del procedimento, sia l’essenziale alterazione dell’equilibrio contrattuale, con perdita per il privato e vantaggio per la P.A., visto che il canone viene assai aumentato e rimangono invariati gli obblighi di realizzazione delle opere in area demaniale, che erano stati accettati quando il canone era più basso.

La sentenza

Il TAR , con la sentenza che si annota, detta alcuni principi di estremo interesse muovendo dalla normativa civilistica, ritenuta “utilizzabile” anche per un atto concessorio di diritto pubblico.

Il Tribunale, in particolare, accoglie il ricorso muovendo del presupposto che una concessione che prevede l’obbligo per il privato di realizzare importanti strutture fisse, che poi verranno apprese alla proprietà pubblica, si distingue sensibilmente rispetto ad “una normale concessione demaniale a fini turistico ricreativi, proprio perché essa a fronte di una durata prolungata nel tempo comporta un impegno notevole da parte del concessionario in termini di investimenti”.

Tant’è vero che una volta realizzate quelle opere il concessionario dovrà pagare il maggior canone proprio sulle opere stesse, costruite a sue spese. A fronte di ciò il Collegio ha ritenuto che la modifica unilaterale, pur se avvenuta in applicazione delle norme di legge del dicembre 2006 emanate per adeguare i canoni ai correnti valori dopo anni di blocco degli importi, andava a modificare gli elementi essenziali del rapporto giuridico instauratosi tra l’Amministrazione e la Società ricorrente, modifica tale da porre le Parti innanzi ad un nuovo rapporto concessorio, che prende il posto di quello originario e nei cui riguardi il privato ha il diritto di dire la propria, anche recedendo dal vincolo.

Nella sostanza il Tribunale ha ritenuto necessario “fornire un’interpretazione costituzionalmente corretta della normativa di cui ai ripetuti commi 251 e 252 che implica la loro applicabilità solo alle tipologie di concessioni demaniali in cui non sono previste opere di difficoltosa ed onerosa realizzazione da parte del privato, anche nella considerazione della mancata espressa abrogazione del DM 343 del 1998”.

Il Concessionario, in altri termini, non può vedersi modificare unilateralmente gli elementi essenziali del rapporto, uno dei quali è proprio il canone, il quale è idoneo ad incidere significativamente sul calcolo della convenienza economica che l’operazione può avere per il privato. Questi, in altri termini, quando ebbe a conseguire la concessione che prevedeva la realizzazione di una serie di opere infrastrutturali ed edificatorie a servizio della nautica da diporto, ma che non entravano nel suo patrimonio, aveva ritenuto che l‘impegno fosse comunque conveniente per i proprio istituzionali fini di lucro (trattasi, lo si ricordi, di imprenditore commerciale), i quali si realizzavano se il canone manteneva quel certo importo base iniziale, naturalmente adeguabile al deprezzamento monetario. Se però il canone, in forza di una legge sopravenuta che ne ha moltiplicati gli importi base rispetto al passato, va ad incidere in misura distorsiva sull’originario calcolo di convenienza – con effetto di moltiplicazione dovuto al fatto che gli immobili costruiti comportano, a loro volta, ulteriore canone aumentato – il concessionario ha diritto, per un verso, di conoscere preventivamente gli intendimenti dell’Amministrazione e, per altro verso, di sciogliersi dal rapporto.

Per giungere a questa conclusione il Tribunale ha invocato la norma di cui all’art. 1623 Codice Civile ove è previsto che se per effetto di una legge o di un atto amministrativo “il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano una perdita e un vantaggio, può essere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto”.

La norma, afferma il Tribunale, pur operando nell’ambito dei rapporti obbligatori di diritto civile propone “un modello di azione” utilizzabile anche nel vincolo derivante dalla concessione di un bene pubblico. Essa consente al privato “di recuperare spazio di discrezionalità economica in termini di assenso alla nuova concessione, ovvero in termini di scioglimento del vincolo assunto”.

Conclusioni

L’art. 1623 Cod. Civ., come sappiamo, trova il suo antecedente nei principi di eccessiva onerosità sopravvenuta contenuti all’art. 1467 Codice Civile.

Rispetto a quella norma, che richiede una “eccessiva onerosità”, qui è sufficiente la “notevole modifica” delle prestazioni già concordate, formulazione che dalla Dottrina è stata ritenta espressiva di un concetto di gravosità inferiore rispetto a quello dell’art. 1467.

Resta comunque il fatto che l’art. 1623 in tema di locazione consente solo la c.d. actio quanti minoris, ovvero lo scioglimento del contratto e non, invece, la riduzione ad equità che è prevista in via generale dall’ultimo comma dell’art. 1467 del codice civile e che, proprio per il fatto di essere collocata nell’ambito delle norme generali sui contratti e non unicamente entro le norme di un singolo contratto tipico, potrebbe ragionevolmente trovare applicazione anche nel caso di rideterminazione del canone per le concessioni demaniali marittime.

Il privato, infatti, potrebbe notificare all’Amministrazione lo scioglimento del contratto a causa della variazione unilaterale del canone, ma sarebbe logico e conforme a buon andamento che la P.A., a quel punto, potesse proporre l’applicazione ridotta dei nuovi canoni, tenuto conto della concreta situazione di fatto, visto che anch’essa ha interesse alla prosecuzione del rapporto per conseguire dal concessionario quelle opere che, poi, entreranno a far parte del patrimonio pubblico.

Da ultimo, va osservato che i principi di diritto affermati dal T.A.R. Trieste avevano già trovato enunciazione da parte di altri Giudici amministrativi e, in modo particolare, della Sezione leccese del T.A.R. Puglia. Con sentenze n° 814/2011 e n° 1093/2011 quel Tribunale aveva, infatti, affermato, in presenza di concessioni demaniali marittime pluridecennali e per strutture da diporto, che il concessionario ha diritto alla “riconoscibilità” del rapporto in ogni momento della sua vigenza e perciò non può vedersi variati unilateralmente gli elementi essenziali, senza almeno recuperare la propria libertà negoziale ed il diritto ad interloquire preventivamente con la P.A.. Identici principi il T.A.R. Puglia – Lecce ha ribaditi con la sentenza 23 maggio 2013, n° 1201.

Il Consiglio di Stato, però, ha manifestato diverso avviso, perché la Sezione VI, con sentenza 4 novembre 2013, n° 5289, ha riformato la decisione del T.A.R. Puglia – Lecce n° 814/2011, sostenendo che “non è compatibile e neppure conferente il richiamo all’art. 1623 Cod. Civ., che prevede la (ontologicamente contrastante ai fini che ne occupano) riduzione ad equità o la risoluzione del contratto per notevole onerosità sopravvenuta a causa di legge”.

È da dire, tuttavia, che la linea giuridica ribadita dal T.A.R. Trieste, pur dopo la richiamata sentenza del Consiglio di Stato, sembra più convincente, in quanto le comprensibili necessità di “adattamento del canone” alle quali era informata la L. n° 296/2006 non possono giustificare, sempre e comunque, l’intervento unilaterale di modifica radicale degli equilibri economico-patrimoniali del contratto, nel silenzio imposto del concessionario. Ciò in quanto questo costituirebbe un indebito aggravamento sopravvenuto degli oneri del privato, che il concessionario non poteva certo prevedere come verosimile al momento della domanda e dell’accettazione dell’atto concessorio.

Avv. Massimo Carlin


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