Esiste un complesso di principi, di rango costituzionale e comunitario, in virtù dei quali si potrebbe dedurre l’illegittimità di una regola di valore sub-costituzionale, come la CEDU, che afferma l’obbligo dell’Amministrazione di reperire, sempre e in qualsiasi momento, le risorse finanziarie necessarie ad assolvere agli obblighi indennitari derivanti dalle decisioni di condanna per eccessiva durata del processo ai sensi della legge n. 89 del 2001.

Consiglio di Stato, sezione IV, 17 febbraio 2014, Presidente ff. M. Branca, Estensore R. Greco

Ordinanza n. 754-2014

Il caso

La vicenda prende le mosse da una serie di condanne inflitte al Ministero della Giustizia da parte della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Roma, per il pagamento di varie somme, a titolo di equo indennizzo, per eccessiva durata del processo, ai sensi della legge n. 89 del 2001 (legge Pinto).

Nonostante le sentenze, l’amministrazione statale non ottempera. Conseguentemente i ricorrenti si rivolgono al Tar Lazio per ottenerne l’esecuzione.

Le conclusioni del giudice di primo grado si fondano sulla constatazione che la legge Pinto nasce al fine di predisporre un rimedio per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, come sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione CEDU (1).

In proposito la Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto modo di affermare:

  • l’adeguatezza del rimedio indennitario previsto dalla legge italiana;
  • che l’esecuzione della sentenza (= pagamento dell’indennizzo riconosciuto), deve considerarsi parte integrante del termine complessivo del processo, rilevando anch’essa ai fini del rispetto del citato art. 6, par. 1 della Convenzione (sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia; 21 dicembre 2010, Gaglione c. Italia);
  • che la mancanza di risorse finanziarie non costituisce idonea giustificazione all’inadempimento di obblighi indennitari derivanti da condanne giurisdizionali per violazione della ragionevole durata del processo;
  • un termine di “tolleranza” per l’esecuzione dei pagamenti, pari a sei mesi, decorsi i quali il ritardo non è più giustificabile.

Ciò premesso, il Tar Lazio, con undici diverse pronunce, disapplica l’art. 3, c. 7, della legge Pinto, secondo cui, in caso di condanna all’equo indennizzo “l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”, ordina al Ministero di ottemperare e lo condanna  a pagare ulteriori somme, a titolo di penalità di mora ex art. 114, c.4, lettera e), d.lgs. n. 104-2010 per il ritardo nell’esecuzione, con decorrenza dallo scadere del termine di sei mesi dalla data in cui ciascuna sentenza è passata in giudicato.

Per definire l’entità della penalità, il Tar aderisce all’indirizzo per cui questa va commisurata in 100,00 euro per ogni mese di ritardo (sentenza Cocchiarella).

Il Ministero propone appello contestando:

  1. l’applicazione della penalità di mora su sentenze in giudicato attinenti ad obblighi di carattere pecuniario;
  2. l’erronea disapplicazione, per supposto contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dell’art. 3 c. 7 della legge Pinto, non essendo tale operazione consentita al giudice a ragione della non diretta applicabilità delle norme CEDU nell’ordinamento italiano.

La sentenza

Il Consiglio di Stato, riuniti gli appelli, esamina le questioni separatamente.

In riferimento al primo motivo, esso rinvia alla sentenza n. 462 del 29 gennaio 2014, con cui lo stesso ha respinto il ricorso del Ministero aderendo all’indirizzo giurisprudenziale maggioritario e considerando la penalità di mora applicabile anche ai giudizi di ottemperanza relativi a decisioni attinenti ad obblighi pecuniari a carico della p.a..

In merito al secondo punto, invece, il Collegio condivide le argomentazioni ministeriali in ordine all’impossibilità, in caso di ravvisato contrasto fra una norma della CEDU e una norma interna, di una diretta disapplicazione di quest’ultima da parte del giudice di primo grado (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3293).

In proposito, si ricorda la costante giurisprudenza della Corte costituzionale che considera le disposizioni della CEDU quali “norme interposte” nell’ordinamento interno come “obblighi internazionali” da rispettare ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.. (sentenze 4 dicembre 2009, n. 317; 26 novembre 2009, n. 311; 27 febbraio 2008, n. 39; 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349).

Con l’ordinanza in esame, i giudici di Palazzo Spada, sollevano quindi questione di legittimità costituzionale sull’art. 3, comma 7, della legge, n. 89-2001 per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. e sospendono il giudizio fino alla pronuncia della Consulta.

La Corte Costituzionale, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU fornita dalla Corte europea, resta infatti l’unico organo legittimato a verificare se, così interpretata, la norma ex art. 6, par. 1, della Convenzione,  si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione.

In tale ultima ipotesi, dovrà essere esclusa l’idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro ex art 117, c.1, della Costituzione. Più precisamente, nel caso della legge n. 89-2001, potrebbe ricorrere una di quelle situazioni “eccezionali”, che soltanto la Corte costituzionale è abilitata a individuare, in cui l’esistenza di un principio fondamentale del diritto interno, di rango costituzionale, è suscettibile di escludere l’idoneità della previsione della CEDU a fungere da “norma interposta” del parametro ex art. 117, comma 1, Cost..

Tale principio fondamentale, potrebbe essere rappresentato, secondo il giudice di appello, dalla regola dell’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 della Costituzione, che ammette il ricorso all’indebitamento solo in circostanze eccezionali e in presenza di un iter rinforzato. Ciò al fine di assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e di garantire il mantenimento negli Stati membri di livelli di disavanzo e di debito predefiniti.

E’ quindi evidente che la valutazione in ordine alla compatibilità fra l’articolo 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001 e l’articolo 6, par. 1, della CEDU può essere rimessa esclusivamente alla Corte costituzionale la quale verificherà anche quale delle due disposizioni debba effettivamente prevalere, stante il descritto quadro normativo di riferimento costituzionale e comunitario.

La valutazione della sentenza

Nell’ordinanza, il Consiglio di Stato afferma l’esistenza di un complesso di principi, di rango costituzionale e comunitario, in virtù dei quali si potrebbe dedurre l’illegittimità di una regola di valore sub-costituzionale, come la CEDU, che impone all’Amministrazione di reperire, sempre e in qualsiasi momento, le risorse finanziarie necessarie ad assolvere agli obblighi indennitari derivanti da sentenze di condanna per eccessiva durata dei processi ai sensi della legge n. 89 del 2001.

Viene ricordato che, per rispondere a tali obbligazioni, lo Stato prevede apposite voci di bilancio, basate su stime approssimative. Il problema del caso in esame impone tuttavia di considerare l’ipotesi, oggi molto frequente, che le somme stanziate si rivelino insufficienti a coprire il debito complessivo derivante dalle condanne.

E’ evidente che, se la Consulta dovesse dichiarare la prevalenza della norma CEDU rispetto alla norma interna, l’ordinamento italiano rischierebbe seri danni alle proprie casse e dovrebbe quindi immediatamente correre ai ripari al fine di rivitalizzare la macchina della giustizia nel più breve tempo possibile.

Considerando i dati a disposizione (2), si tratta certo di un traguardo ancora lontano. Basti pensare che, nel 2011, per i ritardi nei processi, lo Stato italiano ha sborsato 84 milioni di euro, contro i 5 milioni dell’anno 2003. Peraltro, il tempo medio per arrivare a una sentenza civile è di sette anni e di quasi cinque nel penale.

Va ricordato infine che la ragionevole durata di un processo viene quantificata dalla legge Pinto in tre anni per il giudizio di primo grado, in due per l’appello e in uno per quello di Cassazione. Oltre tale periodo, la durata diventa “irragionevole” e determina il diritto al risarcimento del danno indipendentemente dall’esito favorevole o meno del giudizio.

L’equa riparazione prevede il risarcimento di danni sia patrimoniali (ad esempio, la perdita di reddito, ovvero l’impossibilità di acquisire proventi) che non patrimoniali (da afflizioni, ansie, sofferenze morali che non occorre dimostrare). Circa l’importo dell’indennizzo, la giurisprudenza ha stimato il danno non patrimoniale in cifre comprese tra i 1000/1500 euro di indennizzo per ogni anno di ritardo rispetto alla durata ragionevole del processo.

Da ultimo si ricorda che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha esteso l’applicabilità del termine ragionevole di cui all’art. 6 c. 1 della Convenzione CEDU anche ai procedimenti amministrativi come riscontro di un diritto del cittadino (sentenza Monskal vs Polonia del 2009).

Simonetta Fabris

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(1) Articolo 6 CEDU – Diritto a un equo processo

1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.

2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

3. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico;

b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa;

c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia;

d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza.

(2) Relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2011, inviata al Parlamento dal Ministro Severino.


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