Il glifosato presente negli alimenti, è uno dei contaminanti chimici su cui nell’ultimo periodo si è concentrata l’attenzione dei mass media.

In realtà la presenza di glifosato nei cibi è un rischio chimico su cui si discute da diversi anni. Sia la IARC che l’EFSA si sono espressi in tal senso con risultati spesso contrastanti.

Il glifosato è un erbicida, tra i più utilizzati nel mondo. Nello specifico è una sostanza attiva ampiamente usata nei pesticidi. I pesticidi a base di glifosato (cioè i formulati che contengono glifosato e altre sostanze chimiche) sono utilizzati in agricoltura e orticoltura principalmente per combattere le erbe infestanti che competono con le colture. Vengono applicati in genere prima della semina e come trattamento essiccante pre-raccolta per accelerare e uniformare il processo di maturazione.

Tecnicamente parlando il glifosato è una molecola chimica di sintesi piuttosto complessa, la cui formula chimica è C3H8NO5P. E’ un analogo aminofosforico della glicina, inibitore dell’enzima 3-fosfoshikimato 1-carbossiviniltransferasi (EPSP sintasi), noto come erbicida totale (non selettivo).

Fu scoperto prima nel 1950 e poi, in modo indipendente, nel 1970, è stata studiata la sua attività erbicida e, soprattutto, la sua capacità di bloccare la crescita delle piante. Le sue caratteristiche lo portano quindi ad essere un potente veleno, sia per il suo meccanismo d’azione che per il fatto di essere, a differenza di altri erbicidi, diffuso in tutti gli organi della pianta, non solo in una parte.

Il composto chimico è divenuto di libera produzione nel 2001, anno in cui è scaduto il relativo brevetto di produzione, fino ad allora appartenuto alla Monsanto Company.

Il glifosato è quindi un diserbante sistemico di post-emergenza non selettivo (fitotossico per tutte le piante). A differenza di altri prodotti, viene assorbito per via fogliare (prodotto sistemico), ma successivamente traslocato in ogni altra posizione della pianta per via prevalentemente floematica.

Questo gli conferisce la caratteristica di fondamentale importanza di essere in grado di devitalizzare anche gli organi di conservazione ipogea delle erbe infestanti, come rizomi, fittoni carnosi ecc., che in nessun altro modo potrebbero essere devitalizzati.

Visto il suo grande utilizzo, il glifosato è da molti anni oggetto di studi scientifici che hanno però dato risultati discordanti. In particolare, una ricerca svolta nei ratti da un gruppo di ricercatori francesi diretti da Gilles-Eric Séralini aveva segnalato una grave cancerogenicità. La ricerca, i cui risultati furono pubblicati nel 2012 sulla rivista Food and Chemical Toxicology, aveva ottenuto molto spazio sui giornali, ma anche suscitato numerosissime critiche su diversi aspetti tecnici e, in generale, sull’affidabilità del metodo usato e dei risultati.

Le lettere di critica spedite alla rivista, numerose e dettagliate, hanno in breve tempo spinto la direzione editoriale del giornale ad analizzare meglio lo studio e quindi a prendere l’inusuale e grave decisione di ritrattare l’articolo. Lo stesso studio è stato successivamente ripresentato dagli autori per la pubblicazione su una rivista di minore prestigio e credibilità.

Le conclusioni estreme di questo studio restano dibattute e controverse. Ma anche le più importanti istituzioni scientifiche internazionali si sono espresse, seppure con maggiore cautela, in modo non del tutto concorde sulla potenziale pericolosità del glifosato.

Nonostante questo la IARC ha preso in esame tutti gli studi relativi ai possibili effetti per l’uomo e per gli animali. L’analisi approfondita si è conclusa nel 2015, con la decisione di inserire il glifosato nella lista delle sostanze “probabilmente cancerogene” (categoria 2A).

In particolare, gli studi epidemiologici sulla possibile attività del glifosato negli esseri umani hanno segnalato un possibile, lieve aumento del rischio di linfomi non-Hodgkin tra gli agricoltori esposti per lavoro a questa sostanza, mentre gli studi di laboratorio in cellule isolate hanno dimostrato che la sostanza provoca danni genetici e stress ossidativo. Questi aspetti fanno diventare il glifosato non solo un rischio per la sicurezza dell’alimento, ma anche per la salute e sicurezza dei lavoratori che ne sono esposti.

Nonostante questo però, OMS, FAO e soprattutto EFSA nei propri pareri hanno sempre visto in modo diverso la pericolosità di questa sostanza. Le organizzazioni/agenzie sopracitate infatti hanno espresso giudizi più rassicuranti, ma hanno previsto comunque misure di cautela, come la valutazione dei residui di glifosato nei cibi e il divieto di utilizzarlo in aeree densamente popolate.

Nello specifico, la più attiva nel dare pareri a riguardo, su richiesta dell’UE è stata proprio L’EFSA. Infatti nel 2015, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha condotto un’altra valutazione tecnica – affidata all’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio – secondo la quale “è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogenicità per l’uomo”. Ad ogni modo l’EFSA ha disposto “nuovi livelli di sicurezza che renderanno più severo il controllo dei residui di glifosato negli alimenti” come misura di cautela.

Anche le conclusioni dell’EFSA sono state oggetto di critiche, finché nel 2016 l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura (FAO) hanno condotto un’analisi congiunta giungendo anche loro alla conclusione che “è improbabile che il glifosato comporti un rischio di cancro per l’uomo come conseguenza dell’esposizione attraverso l’alimentazione”.

La discussione però non si interruppe, tant’è che l’EFSA nel maggio 2017 pubblicò una dichiarazione  che riuniva molti dei commenti pubblici formulati dall’Autorità per contribuire a informare il dibattito sul glifosato facendo in modo che la valutazione UE del glifosato fosse ben compresa.

Inoltre sempre l’EFSA l’8 giugno 2017 , in seguito a illazioni contenute nei cosiddetti “Monsanto papers”, ha pubblicato una dichiarazione scritta circa la valutazione del glifosato da parte dell’UE. La dichiarazione, richiesta dalla Commissione europea, descrive il quadro legislativo dell’UE in materia di presentazione della letteratura scientifica aperta finalizzata alla valutazione delle sostanze attive, e spiega come tale letteratura venga esaminata dagli Stati membri dell’UE e dagli esperti dell’EFSA durante il processo di revisione tra pari.

Nel settembre 2017, su diversi organi di stampa europei sono apparsi articoli che mettevano in dubbio l’ integrità della valutazione del glifosato da parte dell’ UE, in particolare il contenuto della relazione di valutazione presentata all’EFSA dall’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi (BfR). L’ EFSA ha replicato con una dichiarazione in cui difendeva la fondatezza della valutazione dell’UE e sottolineava che le accuse si basavano su un malinteso circa il processo di valutazione tra pari.

Nonostante i pareri scientifici, c’è chi ancora nutre dubbi nei confronti del reale effetto dannoso del glifosato. In realtà c’è anche chi utilizza il glifosato e i suoi ipotetici effetti dannosi per fini commerciali.

Ad esempio Coldiretti che in una nota presente nel loro portale riporta: “In attesa della decisione definitiva è “necessario che le misure precauzionali introdotte a livello nazionale riguardino coerentemente anche l’ingresso in Italia di prodotti stranieri trattati con modalità analoghe come il grano proveniente dal Canada dove viene fatto un uso intensivo di glifosato proprio nella fase di preraccolta”. E’ quanto afferma la Coldiretti in riferimento al rinvio della decisione per rinnovare l’autorizzazione del Glyphosate al prossimo comitato del 6 novembre 2017 dopo che la Commissione ha constatato che non c’è il sostegno sufficiente per approvare la proposta della Commissione europea. In Italia – sottolinea la Coldiretti è infatti già in vigore il divieto di uso del glifosato nelle aree frequentate dalla popolazione o da “gruppi vulnerabili” quali parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bambini, cortili ed aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie ma vige anche il divieto d’uso in campagna in pre-raccolta “al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura” per effetto del decreto del Ministero della Salute in vigore dal 22 agosto del 2016. Un principio che – continua la Coldiretti – deve essere ben evidenziato anche nell’ambito dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada (CETA) dove al contrario si prevede invece l’azzeramento strutturale dei dazi indipendentemente dagli andamenti di mercato. Circa 1,2 miliardi di chili di grano – conclude la Coldiretti sono infatti sbarcati lo scorso anno dal Canada dove viene fatto un uso intensivo di glifosato nella fase di pre-raccolta per seccare e garantire artificialmente un livello proteico elevato.”

In pratica nell’ultimo mese la lotta di Coldiretti nei confronti del grano importato dal Canada si è accesa ancor di più, e come arma di attacco si è utilizzato proprio il glifosato, nonostante i risultati dei pareri scientifici.

Ad ingigantire ancor di più la questione è stata la trasmissione report, che ha presentato un servizio alquanto controverso proprio sulla presenza di glifosato nelle marche di pasta italiane più famose.

Come riportato in un articolo del Fatto Alimentare , “il servizio del giornalista di report inviato in Canada, ha proposto immagini molto efficaci e ha focalizzato l’attenzione sul problema attraverso interviste a soggetti non proprio super partes, che hanno creato molta confusione e destato un certo allarmismo. Il colpo di scena del programma però si registra al 14° minuto quando vengono presentati i risultati delle analisi sul glifosato fatte in laboratorio su 6 campioni di pasta italiana (Barilla, Garofalo, Divella, Rummo, La Molisana, De Cecco). Prima di leggere i risultati il conduttore precisa che il glifosato è stato trovato in tracce e i valori sono “ampiamente sotto i limiti di legge” e poi conclude dicendo che “bisognerebbe mangiare da 100 a 600 kg di pasta al giorno per superare i livelli stabiliti dall’Efsa!“.

In realtà le statistiche ci dicono che gli italiani hanno un consumo annuale pro-capite di pasta di circa 28 Kg, quantità che non si avvicina minimamente a quella considerata pericolosa da EFSA. Non solo, valori simili di glifosato nella pasta sono stati rilevati dalla rivista Test Il Salvagente e dal mensile Altroconsumo che hanno realizzato prove di laboratorio, così come pure da altri che hanno trovato la presenza del diserbante in quantità infinitesimali anche nella farina italiana.

Proprio per questo il problema non riguarda solo il grano importato dal Canada e soprattutto andrebbe valutato con attenzione e cautela, considerando quanto suggerito dai pareri scientifici di esperti in materia, tralasciando invece i capricci e l’incompetenza di chi utilizza finti scoop per fare audience o per combattere battaglie inutili.

Comunque per concludere si può dire, in sostanza, che il caso del glifosato rappresenta, al momento attuale, un buon esempio di sospetta cancerogenicità non sufficientemente dimostrata, nei confronti della quale le istituzioni hanno deciso di mettere in atto il principio di precauzione: non vietarne del tutto l’uso (mossa che potrebbe avere effetti negativi sulla produzione agricola) ma istituire limiti e controlli nell’attesa di ulteriori studi.

Sicuramente per quanto riguarda la salute dei consumatori, come per tanti altri inquinanti di origine chimica vale il principio dettato da Paracelso nel 1500 che recita: “tutte le cose sono velenose, solo la dose determina se una cosa non è velenosa”.

Dott. Matteo Fadenti


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