Il D.Lgs. 231/2001 ha portato una vera e propria svolta nel campo penale e di responsabilità. Se nella storia del nostro diritto era un assioma il fatto che la responsabilità penale è sempre personale, come recita peraltro l’art 27 della Carta Costituzionale, grazie a questo decreto legislativo vi è una vera e propria rivoluzione copernicana nella materia.

Prima del D.Lgs. 231/2001 era prevista una responsabilità sussidiaria e non diretta dell’ente. Con questo nuovo paradigma normativo invece, si ha una responsabilità diretta dell’ente (responsabilità amministrativa), andando a superare di fatto il principio societas delinquere non potest.

La responsabilità dell’ente sorge in presenza di alcuni presupposti: innanzi tutto ci deve essere un reato commesso dalla persona fisica che appartiene ad un ente. Inoltre la responsabilità coinvolge il patrimonio dell’ente. La sussistenza degli illeciti amministrativi, è accertata secondo le regole del processo penale.

Una delle sentenze più importanti in tema, è quella nei riguardi della Thyssen Krupp del 24/04/2014 38343. In tale sentenza si dice che il sistema normativo introdotto dal D.Lgs. 231/2001 coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza.

Il D.Lgs. 231/2001 si applica ai seguenti soggetti:

– Enti forniti di personalità giuridica

– Società ed associazioni prive di personalità giuridica.

Grazie a questo campo di applicazione, il D.Lgs. 231/2001 ha la funzione di contrastare la criminalità di impresa.

Sono invece esclusi: gli enti pubblici territoriali e non economici, allo stato e agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (partiti politici e sindacati).

Considerata la natura punitiva e la particolare severità delle sanzioni applicabili agli enti collettivi, il legislatore ha voluto rendere la responsabilità dell’ente il più possibile coerente con i principi penalistici classici:

– legalità

– responsabilità per fatto proprio e colpevolezza

– proporzione

Le persone che possono far scattare la responsabilità dell’ente in caso di reato, sono elencate nell’art. 5 del D.Lgs. 231/2001, e sono persone legate all’ente da un rapporto qualificato, nello specifico:

– Soggetti apicali (al vertice dell’organizzazione e persone che gestiscono di fatto l’ente).

– Soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza dei soggetti apicali.

L’ente è responsabile se le persone ad esso legate da un rapporto funzionale, hanno commesso il reato nel suo interesse o a suo vantaggio.

Il D.Lgs. 231/2001 prevede anche un criterio di imputazione c.d. “soggettivo” della responsabilità all’ente: la c.d.: colpa di organizzazione. D’altro canto il legislatore prevede l’esenzione della responsabilità dell’ente, quando in caso di reato di un soggetto ad esso legato, dimostra di aver fatto di tutto per far sì che il reato fosse evitato. In pratica l’ente non risponde se prova congiuntamente che (inversione dell’onere della prova):

– di aver adottato e applicato modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatosi.

–  la presenza di un organismo di vigilanza dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo che verifichi l’osservanza dei modelli di gestione sopracitati.

– che le persone che hanno commesso il reato, lo abbiano fatto eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione.

– non vi è stato omesso o insufficiente controllo da parte dell’organismo di vigilanza.

In ogni caso l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza è esclusa se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Uno dei tratti più significativi e di novità della 231 è quindi quello dei sistemi organizzativi e di gestione. Un modello organizzativo è un idoneo sistema di controllo interno, che deve ridurre il rischio entro i limiti di accettabilità (eliminarli infatti è difficile visto che il rischio zero non esiste).

L’art 6 del D.Lgs. 231/2001 va ad elencare i requisiti legali del modello organizzativo. Tale modello parte e si basa sulla valutazione del rischio reato (risk assessment), e sulla mappatura delle aree di rischio. Fatto questo si devono redigere i protocolli preventivi, caratterizzati da specificità che devono essere calibrati sul rischio rilevato. Successivamente vanno individuate e gestite le risorse idonee ad impedire la commissione dei reati. L’organismo di vigilanza deve essere informato riguardo tali attività, attraverso report informativi periodici e segnalazioni di illeciti.  A completamento del modello si deve redigere un sistema disciplinare idoneo, per punire coloro i quali non lo rispettino.

Il modello organizzativo poggia su 7 pilastri essenziali:

– Codice etico.

– Sistema organizzativo formalizzato e chiaro (con chiari compiti e responsabilità, deleghe, procure, segregazione poteri nelle aree a rischio).

– Adozione di protocolli decisionali.

– Costituzione dell’organismo di vigilanza interno.

– Obbligatorietà di informare l’organismo preposto ai controlli interni.

– Introduzione di un sistema disciplinare che vada a sanzionare per il mancato rispetto delle misure previste nel modello.

– Adeguata formazione del personale sul modello adottato.

L’aspetto più interessante però è il concetto di responsabilità dell’ente nei reati in materia di sicurezza sul lavoro. Nello specifico a trattare questo argomento è l’art. 25-septies del D.Lgs. 231/2001 modificato in questo senso sia nel 2007 che nel 2008 con il D.Lgs. 81/08 smi. Ecco quanto prevede:

Art. 25-Septies

Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (1)

  1. In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
  2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno.
  3. In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi.

(1) Articolo inserito dall’articolo 9 della legge 3 agosto 2007, n. 123 e successivamente sostituito dall’articolo 300 del D.Lgs. 9 aprile 2008 n.81.

Non è quindi prevista la responsabilità dell’ente in altri casi, come l’omessa adozione di cautele e presidi antinfortunistici.  Inquadrando il tema della responsabilità dell’ente per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, c’è da dire che solo i soggetti apicali (datore di lavoro, direttore di stabilimento e delegato del datore di lavoro) e i sottoposti (dirigenti, preposti, RSPP, medico competente e lavoratori) possono dar vita alla responsabilità dell’ente, solo in caso di morte o lesioni gravi o gravissime.

È ovvio però che in caso di lesioni o morte di un lavoratore è difficile che il tutto accada per interesse o vantaggio dell’ente, anzi un evento avverso di questo genere porta solo gravi conseguenze all’ente (dalle sanzioni, ai fermi produttivi). Questo aspetto quindi renderebbe non applicabile l’art. 25 septies.

Per renderlo applicabile la giurisprudenza ha ragionato in modo diverso, portando ad una soluzione. Per fare questo si è data una lettura conservativa all’art. 5 della 231/2001. Questo vuol dire che il decreto va letto per renderlo applicabile e non per renderlo vano e inapplicabile.

La soluzione sta nel fatto che il riferimento all’interesse o vantaggio non vada riferito all’intero reato, ma solo a parte del reato, ovvero alla condotta colposa commessa. In questo caso l’interesse non è il danno al lavoratore bensì il risparmio di spese, di costi della sicurezza. Altri benefici sono: l’aumento della redditività dell’impresa e l’aumento della produttività del fattore-lavoro (ovvero aumentare ritmi e produttività non rispettando le norme in materia di sicurezza, come utilizzo DPI, utilizzo sicuro di macchinari, movimenti ripetitivi ecc).

Tutto questo non fa altro che dimostrare quanto sia importante per le aziende organizzarsi in modo concreto nei confronti dei sistemi di gestione della sicurezza e soprattutto quanto sia importante investire nella sicurezza sul lavoro, sia per evitare eventi avversi che per rendere migliore e più efficiente la propria produzione. Si deve agire per tutelare i lavoratori e anche l’intera impresa. Si deve capire che i costi della sicurezza non sono spese bensì un intelligente investimento.

Dott. Matteo Fadenti


Stampa articolo