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La revisione straordinaria delle partecipazioni al vaglio del giudice amministrativo9 min read

Una delle prime sentenze del G.A. in materia di revisione straordinaria delle partecipazioni

Tar Veneto, sentenza n. 363 del 7 marzo 2018 [1]Presidente Nicolosi, relatore De Berardinis

Il caso

Il socio privato di una holding, a prevalente capitale pubblico e a partecipazione diffusa, impugna i piani di razionalizzazione delle società partecipate, adottati dai Comuni soci, sostenendo l’impossibilità per i medesimi di mantenere le loro partecipazioni in quanto non strettamente necessarie alle rispettive finalità istituzionali.

La holding opera nel campo della realizzazione e della gestione delle reti di distribuzione del gas metano ma anche, attraverso società controllate, negli ambiti della fornitura di energia e dei servizi di telecomunicazione.

Il socio privato partecipa al capitale con una percentuale dello l’8,61%, mentre i novantuno Comuni con delle micro partecipazioni, che vanno da un minimo dello 0,05% ad un massimo del 2,74%.

In sede di adozione dei provvedimenti previsti dal T.U.S.P. [2], i Comuni hanno tutti deliberato:

a) che la partecipazione non potesse essere mantenuta senza l’adozione di una “misura di razionalizzazione” da adottarsi ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 175/2016 [2], essendo la società priva di dipendenti;

b) che la misura, idonea a consentire il mantenimento della partecipazione e ad evitarne la dismissione, fosse un’operazione di fusione societaria mediante incorporazione di altra controllata nella holding.

A parere del socio ricorrente, l’opzione della fusione, prescelta dalle amministrazioni locali non sarebbe ammissibile, in quanto le partecipazioni comunali avrebbero soltanto scopo di lucro, al pari di ogni altra attività commerciale o industriale, e, quindi, non potrebbero essere mantenute, né potrebbe essere riconosciuto in capo ai soci pubblici alcun margine di valutazione discrezionale al riguardo.

In altri termini, la frammentazione delle quote, in assenza di convenzioni, patti parasociali o di sindacato idonei a garantire il controllo congiunto dei soci pubblici, avrebbe dovuto indurre i Comuni a qualificare le loro partecipazioni come non necessarie al perseguimento dei propri fini, anche perché la polverizzazione del capitale non garantirebbe loro, neppure in via indiretta, l’effettiva partecipazione all’elezione dei rappresentanti del Consiglio d’amministrazione ed alle decisioni strategiche della società.

A margine

La sentenza è stata depositata qualche giorno dopo rispetto all’orientamento [3] del MEF sulla nozione di controllo pubblico diffuso, ed è degna di nota in quanto, anzitutto, chiarisce la giurisdizione del giudice amministrativo sui provvedimenti di ricognizione delle partecipazioni societarie, sulla scorta della loro natura provvedimentale ed autoritativa.

Secondo il Tar, la decisione di alienare o meno le partecipazioni, non risulta una mera una scelta di merito affidata al solo sindacato della Corte dei conti in quanto il provvedimento, avente un contenuto sì ricognitivo, ma anche volitivo, si traduce in una manifestazione di volontà, espressione del potere autoritativo della P.A., preordinata alla cura di uno specifico interesse pubblico, e diretta a produrre unilateralmente effetti giuridici nei rapporti esterni con i destinatari.

La decisione di adottare delle “misure di razionalizzazione” attiene, tra l’altro, anche a profili di organizzazione generale delle stesse P.A., in qualche modo assimilabili agli atti di cd. macro-organizzazione, che, per giurisprudenza consolidata, sono assoggettati a principi e regole pubblicistiche e devoluti alla cognizione del giudice amministrativo (cfr. ex multis, C.d.S., Sez. V, 31 agosto 2016, n. 3740 [4], e 28 novembre 2013, n. 5684).

Inoltre, come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, spettano alla giurisdizione esclusiva di questo giudice le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale, prodromica alla vicenda societaria, con cui un Ente pubblico delibera di costituire una società, di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita di essa (cfr. Cass. civ., Sez. Un. 20 settembre 2013, n. 21588; 30 dicembre 2011, n. 30167; v. pure Cass. civ., Sez. Un., 3 novembre 2009, n. 23200).

Diversamente, in caso di mancata adozione del provvedimento di ricognizione, l’accertamento della possibilità o meno, per i Comuni soci, di esercitare i diritti sociali, afferendo alla sfera civilistica dei rapporti paritetici tra soci pubblici e socio privato in sede assembleare, non può che ritenersi attribuito alla giurisdizione ordinaria.

La sentenza risulta altresì significativa perché ammette la legittimazione ad agire in giudizio di un socio privato titolare di una partecipazione non strategica.

Allo stesso, infatti, il Tar riconosce la possibilità di ricorrere per tentare di massimizzare il proprio investimento e poter porre successivamente in essere le operazioni societarie a ciò finalizzate (nel caso di specie: la fusione della holding in altra società quotata del gruppo o, in alternativa, l’imposizione ai Comuni della vendita delle rispettive quote con possibilità per la ricorrente di concorrere per il loro acquisto).

Nella vicenda oggetto di controversia, gli obiettivi del socio privato risultano effettivamente frustrati dalle deliberazioni comunali, le quali incidono in via immediata e diretta sugli interessi patrimoniali di questo, in quanto:

  • prevedono il mantenimento della partecipazione prefigurando una fusione della holding con altra società per permettere alla prima di rispettare i requisiti imposti dal d.lgs. n. 175/2016 [2];
  • sono destinate ad avere un seguito nelle decisioni assembleari delle società del gruppo e, come tali, sono produttive di effetti esterni immediati.

A questo si aggiunga che, ai sensi dell’art. 2377, co. 2, C.C. [5], il socio privato ha, al pari di qualsiasi altro socio, interesse alla regolare e corretta gestione della società ovvero a che la stessa agisca legittimamente (1).

E proprio a tale fine il ricorrente impugna le deliberazioni dei Comuni, chiamati a provvedere sulle loro partecipazioni, assumendo delle determinazioni nel rispetto della legge.

Ne deriva che l’eventuale illegittimità degli atti di ricognizione costituirebbe di per sé un danno per tutti i soci poiché finirebbe per ripercuotersi sul buon funzionamento della società e sul valore delle relative partecipazioni.

A nulla rileva la mancata contestazione, da parte del socio privato, dei precedenti piani adottati dai Comuni ai sensi della legge n. 190/2014 [6], avendo, la revisione delle partecipazioni, prevista d.lgs. n. 175/2016 [2], carattere straordinario, e non integrando, perciò, un mero aggiornamento dei pregressi piani di razionalizzazione.

Nel merito del ricorso il giudice sancisce l’illegittimità delle deliberazioni comunali:

  • per avere ritenuto tutte che le partecipazioni dei Comuni nella holding fossero coerenti con il perseguimento delle loro finalità istituzionali;
  • che le attività svolte dalle società controllate dalla holding consistessero in servizi di interesse generale, ai sensi degli artt. 2, co. 1, lett. h), e 4, co. 2, lett. a), del d.lgs. n. 175/2016 [2], nonostante il carattere estremamente frammentato di tali partecipazioni e la mancanza di convenzioni, patti parasociali o di sindacato idonei a garantire il controllo congiunto dei soci pubblici sulla “holding”.

Su tale ultimo aspetto, ricorda il Tar, si è infatti già pronunciata la Corte dei conti, sezione controllo per la Lombardia, la quale ha chiarito che nei casi di partecipazione minoritaria (ed in assenza di altri soci pubblici, che consentano il controllo della società), il servizio espletato non è da ritenersi “servizio di interesse generale” non potendo essere garantito l’accesso al servizio e la sua fruibilità nei termini declinati nel cd. decreto Madia (Cfr. deliberazione n. 398/2016 [7]).

Il Tar aderisce alle argomentazioni della Corte dei conti sul presupposto che le partecipazioni “pulviscolari” non consentono ai singoli soci pubblici di influire sulle decisioni strategiche della società né, tanto meno, sulle decisioni attinenti alle modalità di accesso ai servizi e di erogazione di questi.

Del resto “il rapporto di strumentalità di un ente societario, formalmente privatistico e naturalmente operante nel mercato, rispetto ai fini di interesse pubblico devoluti alla cura dell’Amministrazione partecipante non dipende dal solo oggetto sociale, ma anche dalle modalità con cui quest’ultima può esercitare le proprie prerogative di azionista ed indirizzarne e coordinarne l’attività.

.. per un’autorità amministrativa ha rilievo non solo “se” una società di diritto privato esercita un’attività economica e se, pertanto, è opportuno partecipare al suo capitale, ma anche “come” questa attività viene svolta, e, dunque, quale influenza sulla stessa è possibile esercitare, per assicurarne la coerenza con finalità di interesse pubblico” (così, CdS, sentenza Sez. V, 11 novembre 2016, n. 4688 [8]).

Con questa pronuncia, i giudici di Palazzo Spada hanno messo l’accento sull’importanza dell’entità concreta della partecipazione, nell’ottica della capacità dell’Ente pubblico di assicurarsi un’incidenza determinante sul governo della società partecipata.

Ove, quindi, la partecipazione non sia tale da consentire all’Ente di governare verso le proprie finalità istituzionali l’attività della partecipata, la stessa assumerebbe le caratteristiche di un semplice sostegno finanziario ad un’attività di impresa, che si realizza tramite la sottoscrizione di parte del capitale, ma che non si accompagna alla possibilità di indirizzarla verso finalità di interesse pubblico.

Nel caso di specie rileva proprio l’impossibilità per i singoli Comuni soci di influire sulla vita della “holding”, visto il carattere polverizzato delle loro partecipazioni, e l’assenza di un controllo congiunto per mancanza di patti parasociali, di sindacato, o di previsioni statutarie al riguardo.

Detto ciò, il Tar precisa che la società potrebbe sopravvivere nella sua attuale compagine – comprensiva, quindi, delle partecipazioni dei Comuni – a patto che svolga tutti e solo servizi di interesse generale. Se tuttavia, l’attività di distribuzione del gas può ben farsi rientrare tra i “servizi di interesse generale”, non altrettanto può dirsi per l’attività di vendita del gas e per i servizi di telecomunicazione svolti dalla controllata di cui i Comuni hanno stabilito la fusione nella holding, in quanto aventi carattere puramente commerciale, e comportanti il venir meno del requisito della “esclusività” previsto dall’art. 4, co. 2, del cd. decreto Madia.

Per quanto attiene, infine, alle eccezioni di incostituzionalità delle disposizioni del T.U.S.P. [2], sollevate da alcuni Comuni, il giudice sottolinea quanto segue:

  • rispetto alla presunta violazione dell’art. 119 Cost. [9], operata dall’art. 24, co. 1 e ss, la questione si presenta come manifestamente infondata in quanto il procedimento di revisione straordinaria è espressione del principio, da lungo tempo presente nella legislazione nazionale, di disfavore nei riguardi della costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dalle relative finalità istituzionali; né risulta, comunque, coperto da disposizioni normative di specie;
  • rispetto all’incostituzionalità, per contrasto con l’art. 41 Cost. [9], delle sanzioni disposte dall’art. 24, co. 5, del d.lgs. n. 175/2016 [2] comportanti la paralisi dei diritti sociali del socio pubblico e la nullità degli atti societari eventualmente assunti con la partecipazione del socio “inibito”, la questione si appalesa irrilevante con riguardo alla decisione del giudizio, atteso che trattasi di tematica oggetto di cognizione del giudice ordinario;
  • la questione, infine, risulta irrilevante anche con riguardo al contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost. [9], posto che l’eventuale accoglimento del ricorso, con l’annullamento delle deliberazioni gravate, non comporterebbe l’automatica dismissione delle partecipazioni da parte dei Comuni, con l’obbligo per gli stessi di alienare la partecipazione ad un prezzo per loro poco conveniente e più favorevole per i privati. In questo caso, infatti, residua in capo agli enti locali il potere discrezionale di rideterminarsi in sede di revisione straordinaria e di scegliere tra le varie opzioni possibili, avendo come riferimento l’interesse dell’Ente locale e i principi desumibili dal cd. effetto conformativo della sentenza.

Sul presupposto che nessuna disposizione del d.lgs. n. 175/2016 [2] vieta la riedizione del potere di ricognizione straordinaria oltre il termine del 30 settembre 2017, il Tar annulla quindi le delibere comunali relative alla mappatura delle partecipazioni e alle conseguenti azioni di revisione straordinaria.

Stefania Fabris

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(1) A mente dell’art. 2377, co. 2, C.C. [5] “le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti (….)”.