Un particolare scenario, nel quale teorie favorevoli alla configurazione marcatamente pubblicistica delle società partecipate si confrontano e contrastano con tesi privatisticamente orientate, è dato dalla revoca degli amministratori di derivazione pubblica.

Gli amministratori nominati dal socio pubblico possono essere sicuramente revocati per giusta causa, ossia per inadempimenti “tecnici” al mandato ricevuto dal socio pubblico nominante e/o dalla società complessivamente intesa. Anzi, si è addirittura sostenuto, in forza della responsabilità incombente sulla società per l’operato di tutti i suoi amministratori (di nomina pubblica e non), che la configurazione di una giusta causa di revoca consentirebbe all’assemblea societaria di recuperare i propri poteri sanzionatori avverso gli amministratori designati dalla pubblica amministrazione (nelle altre ipotesi rimessi al mero soggetto nominante), pur a dispetto del contrario dettato codicistico.

Tuttavia, al di là delle ipotesi nettamente patologiche, si è diffusamente ritenuto che la nomina pubblica di amministratori societari sia sempre precaria e revocabile “ad nutum”, senza che l’amministratore abbia diritto ad alcuna forma di risarcimento del danno: gli interessi pubblicistici retrostanti sarebbero inesplorabili ed insindacabili da parte del giudice ordinario, impedito ad interferire in ambiti ampiamente discrezionali della P.A. Tutt’al più, l’ente pubblico revocante sarebbe semplicemente tenuto nei confronti del revocato ad una qualche forma d’indennizzo, in presenza di un interesse pubblico sostanzialmente estraneo al comportamento del soggetto revocato.

Ad ogni modo, risulterebbe esaustiva – per giustificare la revoca -, la violazione delle direttive politiche impartite. Non va, infatti, dimenticato il principio di portata generale, secondo cui le nomine e le designazioni di rappresentanti delle Pubbliche Amministrazioni presso altri enti vanno considerate di carattere fiduciario: le stesse riflettono il giudizio di affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare e perseguire gli indirizzi del designante, orientando l’azione della società nella maniera più conforme possibile agli interessi del conferente l’incarico. Tale assetto sarebbe funzionale all’espansione esterna della volontà politica del socio pubblico. Conseguentemente, il mutamento degli organi elettivi, la cessazione del mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia, lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale, finiscono con il travolgere tutte le nomine effettuate durante il mandato elettivo, in applicazione (lo si ribadisce) della regola di diritto comune, a fronte della quale i poteri del rappresentante non solo devono essere conferiti dal rappresentato, ma necessitano altresì della persistenza del rapporto (fiduciario) tra l’uno e l’altro. E’, dunque, legittimo l’esercizio da parte del Sindaco e/o del Presidente della Provincia neo/eletti del potere – in carenza del predetto rapporto fiduciario – di revoca dei pregressi rappresentanti del comune o della provincia in enti, aziende, istituzioni, seppur non ancora scaduti. Ad abundantiam, va rimarcato come, nell’ambito della rappresentanza di interessi, la posizione di vantaggio conseguita dal rappresentante non possa mai essere mantenuta in contrasto con la volontà del rappresentato. Altrimenti, l’interesse da rappresentare (dinamicamente inteso, suscettibile di cambiamento al succedersi di differenti impostazioni politiche) verrebbe in concreto trascurato, creandosi uno svincolo dall’ente di riferimento[1].

Passando alla configurazione della natura del potere di revoca, va evidenziato come, secondo un orientamento minoritario – ma rinvigorito da recente ed autorevole presa di posizione sulla materia -, lo stesso vada inquadrato in termini prettamente pubblicistici, con applicazione integrale delle regole proprie degli atti amministrativi, grazie all’attribuzione diretta della prerogativa all’ente pubblico, in forza di esplicite previsioni legislative (art. 2449 codice civile), abilitate a prescindere da conformi previsioni statutarie. In base a questo indirizzo, la carenza (o la neutralità) della fonte statutaria, associata all’impossibilità d’incidenza dell’assemblea societaria, farebbe venire meno qualsiasi genesi pattizia del potere, farebbe si che l’ente pubblico titolare del potere di revoca non agisca in qualità di socio, bensì nella veste di pubblica amministrazione, esercitando una funzione di matrice pubblicistica, cui non potrebbero che correlarsi posizioni soggettive d’interesse legittimo, tali, peraltro, da radicare la giurisdizione del giudice amministrativo[2].

Viceversa, l’orientamento giurisprudenziale prevalente (ma non troppo!) ritiene che il potere di revoca degli amministratori delle società a partecipazione pubblica, nominati dalla stessa pubblica amministrazione, sia attribuito al soggetto pubblico nella sua veste di socio, risolvendosi – quindi – nell’esercizio diretto di una prerogativa altrimenti riservata all’assemblea. Più precisamente, le disposizioni legislative costitutive dello speciale potere di revoca in capo al socio pubblico, si sarebbero limitate a derogare alle ordinarie competenze dell’assemblea dei soci, senza arrivare a modificare la natura del potere: si tratterebbe, insomma, di norme organizzative di attribuzione della competenza e non sostanziali, incapaci – quindi – d’interferire sull’essenza delle decisioni in argomento; di norme incidenti su organi a pieno titolo societari, operanti in ogni caso secondo il diritto privato, che, in quanto tali, non svolgerebbero né eserciterebbero un pubblico servizio (risulta utile, in tal senso, differenziare il rapporto di servizio pubblico intercorrente tra la società e l’ente pubblico proprietario dal ruolo degli amministratori, che – secondo la presente tesi – si suppone a carattere privatistico, involvere rapporti nemmeno indirettamente pertinenti alla gestione del servizio e persino avulso da vincoli di strumentalità rispetto all’erogazione del servizio). In altri termini, l’ente pubblico azionista non sarebbe “autorizzato” ad intervenire unilateralmente sul rapporto di autonomia con la società e sull’attività della stessa mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, in assenza di apprezzabili deviazioni legislative dalla comune disciplina civilistica dettata per le società di capitali; l’ente pubblico potrebbe influire sul funzionamento della società avvalendosi dei soli strumenti previsti dal diritto societario. Dovrebbe essere, inoltre, escluso che la dinamica della revoca degli amministratori della società pubblica possa essere fatta rientrare nella materia della vigilanza e del controllo nei confronti dei gestori di pubblici servizi (ascrivibile alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), in quanto le prerogative di vigilanza e controllo investirebbero l’attività operativa della società incaricata della gestione del servizio pubblico, ma non i rapporti tra soci ed amministratori. In definitiva, con la revoca, non si aprirebbero controversie tra pubblica amministrazione e gestore del servizio, non si porrebbe in discussione il rapporto giuridico costituito dalla concessione o dall’affidamento del servizio, bensì verrebbe unicamente in rilievo un confronto tra ente pubblico di riferimento ed amministratori “sanzionati”; emergerebbero mere posizioni soggettive (quelle degli amministratori revocati) e non del soggetto giuridico che concorre all’esercizio dell’azione amministrativa (la società, per l’appunto). Tutto ciò “confeziona” la posizione degli amministratori revocati in chiave di diritto soggettivo,  esclude il sindacato del giudice amministrativo ed incardina quello del giudice ordinario[3].

Il diritto amministrativo riesce, comunque, a recuperare qualche margine di manovra, in caso di emersione di esigenze di accesso alla documentazione retrostante al percorso di revoca: l’amministratore revocato o revocando viene riconosciuto quale portatore di un interesse diretto, concreto, attuale e differenziato rispetto alla generalità dei consociati e, a fronte dell’esigenza di tutela della propria posizione soggettiva, gode del diritto di farsi rilasciare dall’ente pubblico copia dell’istruttoria concernente la (proposta di) “decapitazione” (tra l’altro, disporrebbe di speculare diritto la stessa società partecipata, evidentemente interessata alle determinazioni afferenti il mutamento delle persone dei componenti degli organi di amministrazione)[4].

 

 

Roberto Maria Carbonara

Segretario generale del comune di Segrate


[1] La possibilità di riassunzione, da parte dell’assemblea, dei poteri di revoca è sostenuta in dottrina da Cirenei, Ferri, Mignoli – Nobili, Verrucci (sono, tuttavia, contrari Minervini, Bonelli e Devescovi). Per superare l’empasse derivabile dalla irrevocabilità assembleare di amministratori pubblici incapaci, si è suggerito di ricorrere allo strumento della risoluzione giudiziale per inadempimento (Abbadessa).

L’agevole sostituibilità degli amministratori pubblici “infedeli” è supportata da Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia (in data 27/08/1964), Corte d’Appello di Catania (in data 1/12/1978), Corte di Cassazione Civile (sentenza n. 4132/82), Consiglio di Stato (sentenza n. 178/2005), Tar Calabria (sentenza n. 132 del 21 febbraio 2005), Tar Basilicata (sentenza n. 145 del 17 marzo 2006), Tar Puglia Bari (sentenza n. 1759 del 15 maggio 2006), “Tar” Trento (sentenza n. 131 del 12 luglio 2007) e Ciavarella (risultano, tuttavia, contrari Scognamiglio, Cirenei e Minervini).

La tesi della “qualche forma d’indennizzo”, nel caso di revoca per “superiori interessi pubblici”, è sostenuta da Roversi Monaco e Santoni.

[2] L’orientamento minoritario è cristallizzato dalla sentenza n. 1920 del 21 settembre 2005 del Tar Sardegna. Il mese scorso, il Consiglio di Stato si è pronunciato nelle senso della valenza pubblicistica dei poteri in esame, riguardo alle società non esercenti attività d’impresa bensì funzioni sostanzialmente pubblico/amministrative (sentenza n. 122 del 11 gennaio 2013).

[3] L’orientamento maggioritario è ricavato da: Consiglio di Stato (sentenze nn. 708 del 11 febbraio 2003 e 3346 del 13 giugno 2003), Cassazione Civile a SS. UU. (sentenza n. 7799 del 15 aprile 2005), Tar Calabria Catanzaro (sentenza n. 1984 del 18 dicembre 2006), Tar Sicilia Catania (sentenza n. 89 del 25 gennaio 2010), Tar Lazio Latina (sentenza n. 17 del 9 gennaio 2013).

[4] Tar Lombardia Milano, sentenza n. 2177 del 13 novembre 2006.


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