Come si può evitare l’alterazione o la distorsione della concorrenza e del mercato sul territorio nazionale, assicurando nel contempo la parità di trattamento degli operatori economici?

Anche avvalendosi del suggerimento (rectius dell’ordine) sviluppato/assunto dall’art. 13 del D.L. n. 223/2006, convertito con modificazioni nella L. n. 248/2006, ossia: del divieto per le società partecipate da enti locali, c.d. strumentali (costituite per la produzione di beni e servizi strumentali allo svolgimento delle attività delle pubbliche amministrazioni proprietarie), di interfacciarsi con soggetti diversi dagli enti costituenti o partecipanti o affidanti.

Il divieto d’interfaccia si esplica non solo nei confronti degli affidamenti diretti, ma anche riguardo ad affidamenti eventualmente conseguenti a procedure di gara.

Va da se poi che il precetto sia corroborato da sanzione specifica: la speciale nullità dei contratti difformi.

La finalità di impedire l’alterazione del mercato per eccesso di effervescenza delle società strumentali, rappresenta una sorta di must per il legislatore, che cerca di consolidarla anche a mezzo dell’art. 3, comma 27 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244, in forza del quale le amministrazioni pubbliche sono impossibilitate alla costituzione di società strumentali non strettamente necessarie al perseguimento  delle proprie finalità istituzionali, oltre che alla partecipazione in società di tal fatta.

Trattasi di un’impostazione da cogliere sotto la lente dell’adeguatezza costituzionale e comunitaria dell’agire pubblico.

Attraverso le predette costrizioni, si intende infatti evitare la distorsione della concorrenza e la contrazione dell’iniziativa economica privata, che si determinerebbero nell’ipotesi di partecipazione alle gare (indette sia da soggetti pubblici sia da soggetti privati), di enti già affidatari di servizi pubblici locali (strumentali), tenutari quindi di rendite di posizione, che entrerebbero nel mercato troppo aggressivamente, sicuramente non “ad armi pari” con gli altri operatori del settore (semplici “quisque de populo”).

Più sofisticatamente, la ragione fondante dell’assetto appena delineato non è tanto quella di limitare la concorrenza (escludendovi le società strumentali), quanto quella di regolarla preventivamente, onde evitare che nel mercato si creino squilibri aprioristici delle corrette condizioni competitive, a tutto vantaggio delle società pubbliche ed a scapito di quelle private.

Per completare il quadro: l’applicazione “tignosa” di questi principi consente di estendere il divieto anche alle c.d. società di “terzo grado” o di “terza generazione”, ossia alle partecipate dalle partecipate strumentali. In che senso? Nel senso che l’utilizzazione di capitali di società strumentali per partecipare, attraverso la creazione di società di terzo grado, a gare di evidenza pubblica, comporterebbe, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite. Ne’ costituisce valido argomento a contrario la configurazione dello scorporo di attività non più consentite, non emergendo la sostanza di un vero e proprio nuovo soggetto societario. In definitiva, la partecipazione al confronto concorrenziale della strumentale mediante una sua partecipata, consentirebbe alla controllante di essere pienamente attiva sul mercato e ciò integrerebbe gli estremi di una delle differenziate possibilità di violazione del divieto in argomento.

Ma non è che in questo modo si discriminano un po’ troppo queste società strumentali?

No, se solo si ragiona un attimo sulla loro essenza: vengono costituite per compiere a favore dell’ente socio – con affidamento diretto – attività strumentali a quelle dell’ente stesso, che si avvale in tal modo, per tali attività, di propri organismi, senza ricorso al mercato concorrenziale; pertanto, si trovano a realizzare attività sostanzialmente amministrative in forma privatistica, ben diverse dalle attività d’impresa svolte dagli enti pubblici operanti in regime di concorrenza; in definitiva, godono (solo loro, non gli altri)  delle prerogative proprie della pubblica amministrazione, il che le rende ontologicamente incompatibili con l’assunzione del rischio d’impresa in senso stretto.

Ovviamente, l’assetto appena delineato non può essere deviato da eventuali previsioni statutarie che ne estendano (molto teoricamente) i margini di azione, sino a ricomprendervi la possibilità di erogare servizi anche a soggetti terzi: è in ballo, difatti, una dimensione di limitazione legale della capacità di agire, dinanzi alla quale lo statuto non può che soccombere, non essendo affatto deputato alla delimitazione della latitudine della legittimazione alle gare pubbliche di una data persona giuridica, bensì più modestamente al suo atteggiarsi concreto dinanzi alle precostituite previsioni di legge.

Inoltre, sotto altro versante di ragionamento, la chiave di volta non può essere sicuramente rappresentata dalle attività nominalmente enunciate dalle previsioni dell’oggetto sociale (recepite in statuto). Il nostro ordinamento “irrituale” e non nominalistico, finisce col dare prevalenza all’effettivo rapporto instaurato con gli enti pubblici di riferimento: tale rapporto preferenziale riduce automaticamente (rectius, imperativamente) l’ambito delle attività espletabili, non proiettabili all’esterno, checché ne dica lo statuto. Diversamente opinando, si potrebbe agevolmente aggirare l’imposto sistema di restrizioni, con vanificazione delle regole dettate a tutela della concorrenza.

Quale logico corollario, si tarpano le ali anche alle c.d. “multiutilities”, non distinguibili dalle strumentali normali/monografiche.

L’impianto prospettato non viene scalfito nemmeno dalle episodiche giustificazioni della partecipazione a procedure di gara di imprese – prestanti servizi anche ad enti locali parte integrante dell’assetto societario, trattandosi di società miste, recanti una rigorosa differenziazione interna, ma proiettata anche all’esterno, tra attività strumentali a supporto di pubbliche amministrazioni e attività commerciali in senso stretto.

Ma per le società che gestiscono direttamente servizi pubblici locali rivolti alla platea indifferenziata degli utenti/alla collettività, è tutta un’altra storia …

Il divieto di fornire prestazioni a enti terzi, infatti, colpisce esclusivamente le società pubbliche strumentali alle amministrazioni locali, che esercitano attività amministrativa in forma privatistica, e non anche le società pubbliche destinate a gestire servizi pubblici locali, che esercitano – a tutti gli effetti – attività d’impresa di enti pubblici.

L’argomento formale in tal senso deriva  proprio dalla struttura sintattica della norma in esame (“con esclusione dei servizi pubblici locali”), eloquente nell’introduzione dell’eccezione delle società di gestione di servizi pubblici. Può quindi affermarsi perentoriamente che le società pubbliche costituite per la gestione dei servizi pubblici locali, per espressa previsione normativa, godono di un regime derogatorio, che consente loro di rivolgere la propria attività anche a favore di soggetti esterni agli assetti societari, pubblici o privati, con evidente possibilità di partecipazione alle relative procedure di reclutamento.

Nel contesto di cotanta nettezza, appare addirittura superflua e ridondante la precisazione secondo cui la qualificazione differenziale tra attività strumentale e attività di gestione di servizi pubblici, non va riferita all’oggetto della gara, bensì all’oggetto sociale sostanziale delle imprese partecipanti. Non risulta, inoltre, preclusiva l’insussistenza di un oggetto sociale esclusivo (gestione di servizio pubblico locale), ben potendosi accogliere l’interdisciplinarietà degli ambiti di intervento.

Ed anche l’argomento antropologico di supporto risulta – per quanto esposto in precedenza – di chiara evidenza, attenendo alla ponderazione di merito (sotto tutti i punti di vista!) effettuata dall’ordinamento nei riguardi di codesti enti, considerati imprenditori – operatori economici esposti alle intemperie del mercato a tutti gli effetti.[1]

 

Roberto Maria Carbonara, segretario comunale

 

 


[1] Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 2362 dell’8 maggio 2014; Tar Lombardia Milano, sezione III, sentenze nn. 934 dell’8 aprile 2014 e 10 dell’8 gennaio 2014; Consiglio di Stato, sezione V, sentenze nn. 3022 del 3 giugno 2013, 2084 del 16 aprile 2013, 3668 del 21 giugno 2012, 77 dell’11 gennaio 2011, 1651 del 22 marzo 2010; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 17 del 4 agosto 2011.


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