L’ente locale, che dismette la partecipazione in una società ritenuta non più strategica, ha diritto alla liquidazione della propria quota a prescindere dal consenso degli altri soci.

T.A.R. Lombardia, sentenza n. 1305 del 13 ottobre 2015; Pres. ed Est. M. Pedron.


A margine

Con un pizzico di soddisfazione per gli addetti ai lavori, che attendevano da tempo le prime indicazioni giurisprudenziali sulla corretta applicazione del “recesso” previsto dall’art. 1, commi 569 e seguenti, della legge 147/2013, il T.A.R. Lombardia, chiamato a giudicare l’operato di una Provincia, chiarisce che tale modalità di dismissione,  non solo è legittima se esercitata unilateralmente dal socio, ma anche auspicabile se la partecipazione è divenuta non più strategica.

I giudici amministrativi sostengono che se, da un lato, il legislatore statale non impone direttamente l’uscita degli enti pubblici dalle società che gestiscono servizi pubblici, dall’altro, non esprime nemmeno una qualche opposizione a tale ipotesi e, certamente, non costringe le pubbliche amministrazioni a rimanere prigioniere delle società partecipate. Una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza nel capitale di una società affidataria di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto, contemplato dall’art. 3, comma 27, della legge 244/2007, di conservare la partecipazione, in quanto estranea alle finalità istituzionali.

Nel sostenere siffatta equivalenza, i giudici utilizzano la nozione di partecipazione “non strettamente necessaria al perseguimento dei fini istituzionali“, contenuta nell’art. 3 della legge 244/2007, con significato analogo a quella di partecipazione “non più strategica“, espressione quest’ultima adottata da molti enti pubblici per giustificare la dismissione delle quote societarie. In questo modo, il T.A.R. smentisce quella parte di dottrina che negava la possibilità di dismettere, ai sensi della legge di Stabilità 2014, le partecipazioni definite non più strategiche, in quanto prive del requisito attinente alla stretta necessità.

Ma veniamo al nocciolo della questione.

L’istituto disciplinato dall’art. 1, commi 569 e seguenti, della legge 147/2013 (legge di Stabilità 2014), che il Consiglio di Stato definisce “recesso” (diversamente dalla Corte dei conti sezione regionale per le Marche, parere n. 25/2014), consentiva agli enti pubblici di dismettere, entro il 31/12/2014, le partecipazione vietate, ossia quelle non più strettamente necessaria per il perseguimento dei propri fini istituzionali (ovvero non più strategiche). La norma prevede, infatti, che a partire dal 1° gennaio 2015, “la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto; entro dodici mesi successivi alla cessazione la societa’ liquida in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all’articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile“.

Secondo i giudici amministrativi, il diritto ad ottenere la liquidazione della quota dismessa sussiste a prescindere dall’entità di capitale detenuta dal socio recedente. Il T.A.R., infatti, afferma che “quando è ammesso il recesso, la liquidazione è certa, trattandosi di un diritto del socio riconosciuto e regolato dal codice civile, e viene conseguita indipendentemente dalla composizione sociale e dalla quota detenuta. Se invece non vi fosse la possibilità di recedere, e parallelamente la procedura di vendita delle azioni andasse deserta, l’unico modo per uscire dalla società sarebbe il consenso di tutti gli altri soci, con esiti variabili a seconda delle circostanze concrete (maggiore o minore peso all’interno del capitale sociale, accordi tra enti pubblici con partecipazioni azionarie). In presenza di soci privati, inoltre, la dismissione, pur corrispondendo a un interesse pubblico, sarebbe subordinata a valutazioni di natura privatistica. Tutto questo vanificherebbe l’obiettivo fissato dal legislatore, e in definitiva costringerebbe l’ente pubblico a rimanere associato a un rischio di impresa che non corrisponde più alle proprie finalità istituzionali. Di conseguenza, il recesso appare come l’elemento che riporta in equilibrio la procedura di abbandono delle partecipazioni azionarie non strategiche”.

In conclusione, secondo il T.A.R., gli enti pubblici che si sono avvalsi della facoltà di recedere da una società partecipata, ai sensi della legge di Stabilità 2014, hanno diritto alla liquidazione della quota, anche se quest’ultima è minoritaria, in quanto, comunque, trattasi di una partecipazione vietata, non essendo più strettamente necessaria per il perseguimento dei propri fini istituzionali.

Siffatta conclusione appare particolarmente interessante, perché chiarisce che la cessazione degli effetti connessi alla partecipazione per la quale l’ente ha esercitato il “recesso” è determinata dal fatto che tale partecipazione, in quanto estranea ai fini istituzionali, diviene vietata. Di questo si deve tener conto nell’interpretare le norme in argomento, dopo le modifiche previste dall’art. 7, comma 8 bis, del decreto legge 78/2015, convertito nella legge 125/2015,  che ha introdotto il comma 569 bis, stabilendo che: “Le disposizioni di cui al comma 569, relativamente alla cessazione della partecipazione societaria non alienata entro il termine ivi indicato, si interpretano nel senso che esse non si applicano agli enti che, ai sensi dell’articolo 1, commi 611 e 612, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, abbiano mantenuto la propria partecipazione, mediante approvazione di apposito piano operativo di razionalizzazione, in societa’ ed altri organismi aventi per oggetto attivita’ di produzione di beni e servizi indispensabili al perseguimento delle proprie finalita’ istituzionali, anche solo limitatamente ad alcune attivita’ o rami d’impresa, e che la competenza relativa all’approvazione del provvedimento di cessazione della partecipazione societaria appartiene, in ogni caso, all’assemblea dei soci. Qualunque delibera degli organi amministrativi e di controllo interni alle societa’ oggetto di partecipazione che si ponga in contrasto con le determinazioni assunte e contenute nel piano operativo di razionalizzazione e’ nulla ed inefficace”.

Infatti, pur essendo stata introdotta la competenza dell’assemblea ad approvare il provvedimento di cessazione della quota societaria, è ragionavole ritenere che il principio sancito dal T.A.R. rimanga valido, in quanto permane il divieto di conservare la partecipazione non più strategica. In altri termini, l’ente non può rimanere prigioniero della maggioranza, che ovviamente non ha la facoltà di sanare (o “congelare”) il divieto di partecipazione, di conseguenza quest’ultima non può che prendere atto dell’intervenuta cessazione e liquidare la quota del socio receduto. Se così non fosse l’ente pubblico, in violazione alla legge, finirebbe per mantenere una partecipazione divenuta estranea ai propri fini istituzionali.

di Ruggero Tieghi


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