IN POCHE PAROLE …

La combustione dei rifiuti in Italia ha conosciuto, negli ultimi decenni, un’evoluzione tecnologica significativa,  accompagnata da un cambiamento di linguaggio nel dibattito pubblico, con l’introduzione per indicare gli impianti di incenerimento del neologismo “termovalorizzatore”, termine  tuttavia privo di  riconoscimento a livello normativo.

I progetti per la realizzazione di “termovalorizzatori” — o più correttamente, di “inceneritori con recupero di energia” — continuano, però,  a incontrare una forte opposizione da parte dei comitati di cittadini e delle associazioni ambientaliste, mentre quello di Roma Capitale si imbatte nelle riserve espresse dalla Commissione per le petizioni del Parlamento europeo.

Nel contempo, il Consiglio di Stato ribadisce alcune importanti indicazioni per la valutazione di compatibilità di questi  impianti.

Il dibattito rimane aperto, tra esigenze comunicative, vincoli ambientali e critiche legate alla coerenza con i principi di economia circolare, fissati dalla normativa europea e recepiti in quella italiana.


Cons. Stato, sez. III, 24 settembre 2013, n. 4689

Cons. Stato, sez IV, sent. 21 marzo 2025, n. 2350.

Commissione per le petizioni del parlamento europeo

Altri LINK utili

Direttiva 2000/76/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4.12. 2000, sull’incenerimento dei rifiuti

Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24.11.2010, come modificata con  Direttiva (UE) 2024/1785   del 24.4.2024, «Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativa alle emissioni industriali e derivanti dall’allevamento di bestiame (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento)».

LINK al testo coordinato della direttiva 2000/76/CE con le modifiche.

Direttiva 2008/98/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.11.2008 relativa ai rifiuti

D.lgs. 3 aprile 2006, n.152, “Norme in materia ambientale”

D.lgs. 4 marzo 2014, n. 46 di recepimento della direttiva 2010/76/UE


Negli ultimi decenni, la combustione dei rifiuti in Italia ha registrato un costante sviluppo tecnologico, accompagnato anche da un cambiamento lessicale con la sostituzione del termine “inceneritore” con “termovalorizzatore”,  neologismo che si è diffuso abbastanza velocemente nel dibattito pubblico, con l’obiettivo di rendere il tema più comprensibile e socialmente accettabile.

Tuttavia, questa nuova definizione non trova un riconoscimento né nella normativa italiana né in quella europea, che continuano a utilizzare il termine originale, distinguendo solo tra inceneritori con o senza recupero di energia.

Sotto l’aspetto comunicativo, il cambiamento lessicale non ha avuto gli effetti sperati. Rimangono forti le critiche di associazioni ambientaliste, comitati locali e di parte della comunità scientifica, soprattutto per i rischi legati alla combustione e per il potenziale contrasto con le politiche europee di prevenzione, riuso e riciclo dei rifiuti.

Ne è un esempio il progetto del nuovo impianto di Roma, attualmente sotto esame a livello europeo per possibili violazioni della normativa ambientale europea.

Nel contempo, alcune utili indicazioni provengono dal Consiglio di Stato che, di recente, ha ribadito un suo precedente orientamento in materia di preliminari verifiche di conformità urbanistica e compatibilità ambientale dell’area in cui l’impianto è progettato.

In ogni caso, al di là del lessico adottato, la realizzazione di questi impianti richiede il rispetto di norme tecniche, ambientali e urbanistiche, e deve essere coerente con gli obiettivi di economia circolare, per non compromettere le priorità della gestione sostenibile dei rifiuti fissati dalla normativa europea.

La normativa europea e italiana

Come noto, la prima disciplina armonizzata a livello europeo sull’incenerimento dei rifiuti è la Direttiva 2000/76/CE, che ha stabilito standard ambientali e tecnici comuni e ha utilizzato il termine “inceneritore” per indicare impianti di trattamento termico con o senza recupero di energia. Questa direttiva è stata poi integrata nella Direttiva 2010/75/UE sulle emissioni industriali (c.d. IED),  modificata con  Direttiva (UE) 2024/1785, che definisce in modo dettagliato gli “impianti di incenerimento” e quelli di “coincenerimento”, distinguendoli in base alla funzione prevalente: smaltimento o produzione di energia.

Entrambi i su richiamati tipi di impianti sono soggetti a rigorose prescrizioni tecniche e a limiti emissivi, con l’obiettivo di prevenire e ridurre l’inquinamento derivante da attività ad alto impatto ambientale.

E’ pure noto che nella normativa italiana il termine “inceneritore” trova una regolamentazione precisa già con il Decreto Ronchi del 1997, che introduce i concetti di recupero e smaltimento. Infatti, l’incenerimento, da allora, può essere riconosciuto anche come operazione di recupero energetico, purché sia rispettata una soglia minima di efficienza.

Anche il Codice dell’ambiente del 2006, che recepisce la gerarchia europea nella gestione dei rifiuti (prevenzione, riuso, riciclaggio e smaltimento), ha distinto tra impianti con e senza recupero energetico. Il D.Lgs. 46/2014, di recepimento  della  su richiamata Direttiva IED,  ha adottato le definizioni a quelle europee di incenerimento e coincenerimento, allineando la normativa nazionale a quella eurounitaria.

Entrambe le  normative, europea ed italiana, risultano sostanzialmente coerenti; infatti, distinguono tra incenerimento e coincenerimento in base alla finalità dell’impianto e considerano l’efficienza energetica un criterio decisivo per la classificazione. Questa distinzione ha rilevanza non solo giuridica, ma anche ambientale e comunicativa, in quanto influisce sulla collocazione degli impianti nella gerarchia di gestione dei rifiuti e sull’accettabilità sociale delle scelte tecnologiche.

Le riserve della Commissione per le petizioni del Parlamento europeo

L’incenerimento con recupero è spesso propagandato come l’unica soluzione possibile per risolvere il problema dei “rifiuti”, specie dagli enti più in ritardo nel centrare gli obiettivi europei di riciclaggio in peso, fissati dalla direttiva europea  UE 2018/851, di modifica  della direttiva rifiuti 2008/98/CE, entro il corrente anno, in almeno il 55 per cento dei rifiuti urbani; entro il 2030, nel 60 per cento e, entro il 2035, nel  65 per cento.

In particolare, i diversi enti, che promuovono la progettazione di nuovi “termovalorizzatori” o il potenziamento di quelli esistenti, vantano il raggiungimento di alte tecnologie degli impianti. Lo scorso ottobre, ad esempio, è stato presentato il progetto del termovalorizzatore di Roma Capitale, descritto dal Sindaco  come “uno degli impianti più avanzati al mondo sotto il profilo delle performance industriali, delle caratteristiche ambientali, di recupero e riciclo”. Anche altri progetti di potenziamento dei termovalorizzatori esistenti o di costruzione di nuovi in Calabria, Puglia,  Sicilia e  Veneto, sono presentati come la soluzione del problema rifiuti.

Malgrado la nuova denominazione semplificata e accattivante di “termovalorizzatore” e la garanzia di tecnologie avanzate,  questi progetti continuano a originare forti opposizioni da parte di comitati locali, associazioni ambientaliste, nonché da parte della comunità scientifica  e da alcuni gruppi politici, non necessariamente di opposizione, che evidenziano diverse criticità.

E non solo. Succede che questi impianti finiscono sotto le lenti d’ingrandimento della Commissione per le petizioni del Parlamento europeo (PETI), come è avvenuto per il  progetto del nuovo impianto di termovalorizzazione di Roma Capitale, a seguito di una petizione in merito alla conformità ambientale del progetto con le direttive europee sui rifiuti e sull’aria.

La petizione è stata considerata ammissibile dalla PETI, che ha deciso di mantenerla aperta, riconoscendo così la permanenza di un interesse da parte delle istituzioni europee ad approfondire l’esame del progetto. In altri termini, la Commissione ha ritenuto  che il progetto possa non essere in linea con il principio europeo della “gerarchia dei rifiuti”, che privilegia le priorità di scelta delle opzioni di gestione (riduzione, riutilizzo, riciclaggio, recupero energetico, smaltimento con incenerimento o versamento in discarica), e che siano possibili impatti ambientali negativi (qualità dell’aria, emissioni di CO₂, effetti sulla salute pubblica).

Per queste ragioni, la PETI ha chiesto alla Commissione Europea di verificare se il progetto romano rispetti il Green Deal europeo e il Piano d’Azione per l’Economia Circolare e di analizzare se l’impianto sia compatibile con gli impegni presi dall’Italia in sede UE (PNRR, strategia climatica, ecc.).

Le indicazioni del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, con la sentenza  n. 4689/2013, di recente ribadita in motivazione dalla sentenza n. 2350/2025  dello stesso Organo giudicante, ha chiarito che deve essere qualificato sicuramente pericoloso per la preservazione dell’ambiente circostante un impianto che, sebbene rispetti le specifiche tecniche, sia in  contrasto con la destinazione urbanistica dell’area e  incompatibile “con le esigenze ambientali e territoriali” della zona circostante.

In particolare, con le sentenze annotate il massimo Organo di giustizia amministrativa ha spiegato che, sebbene non esplicitamente prevista dall’art. 216 del d.lgs. 152/2006 e dal d.m. 5 febbraio 1998, la conformità del progetto alla normativa urbanistica costituisce comunque un presupposto necessario per il legittimo esercizio dell’attività di recupero dei rifiuti. Secondo il Giudice di appello, tale lettura è ritenuta l’unica in grado di garantire coerenza tra la procedura semplificata (artt. 214 e ss. d.lgs. 152) e quella ordinaria prevista dello stesso decreto (art. 208), che richiede esplicitamente la verifica della compatibilità del progetto con le esigenze ambientali e territoriali, evidenziando come un impianto non coerente con la destinazione urbanistica dell’area, anche se tecnicamente conforme, possa risultare pericoloso per la tutela dell’ambiente.

Conclusioni

E’ pacifico che il termine termovalorizzatore, diffusosi in Italia specie a partire dagli anni 2000, è stato adottato soprattutto per finalità comunicative e politiche, con il voluto intento di rendere più accettabili agli occhi dell’opinione pubblica gli impianti di incenerimento, ponendo l’accento sul recupero di energia e minimizzando l’operazione di incenerimento. Tuttavia, la definizione è considerata impropria e fuorviante, in quanto non riflette pienamente la realtà tecnica ed energetica del processo, che è meno efficiente di quanto propagandato.

Dal punto di vista normativo e tecnico, la distinzione italiana ricalca quella europea tra incenerimento e coincenerimento: il primo finalizzato anche al semplice smaltimento, il secondo al recupero energetico.

In entrambi i casi, è prescritto che gli impianti rispettino precisi vincoli ambientali, urbanistici, tecnici e di tutela della salute. Inoltre, è fondamentale che la realizzazione di questi impianti sia valutata anche sotto il profilo economico, per evitare che obblighi contrattuali spingano i gestori a privilegiare l’incenerimento per garantire la quantità di energia contrattualmente prevista, a scapito del riciclo e del riuso, che, invece, restano prioritari nella strategia europea di economia circolare rispetto al recupero, anche energetico, e ancora di più allo smaltimento, con incenerimento o deposito in discarica dei rifiuti,

Giuseppe Panassidi, avvocato.


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