IN POCHE PAROLE …

E’ di competenza dell’Ordine professionale  la valutazione, sotto l’aspetto disciplinare, dei  comportamenti tenuti dagli iscritti anche se nello svolgimento di attività diverse dall’esercizio della libera professione, se il comportamento è suscettibile di essere considerato di pregiudizio per il decoro della stessa,  restando esclusi dalla competenza dell’Ordine sono gli atti riconducibili all’attività amministrativa dell’ente pubblico.

La registrazione di una conversazione telefonica senza consenso del collega non comporta  violazione del diritto alla riservatezza, ove effettuata per necessità di difesa in giudizio.


Corte di cassazione, Sez. 2, ordinanza 5 marzo 2025, n. 5844Pres. F. Manna- Rel. P. Papa.


Il caso

La controversia riguarda un provvedimento disciplinare adottato dalla Commissione medica di disciplina dell’Ordine provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri, ai sensi dell’art. 58 del Codice deontologico dei medici (testo del 1995, aggiornato al 15 dicembre 2006, vigente ratione temporis), nei confronti di una dottoressa che aveva registrato, senza consenso, una conversazione privata con un collega durante l’orario e nell’ambiente di lavoro, al fine di utilizzare il contenuto come prova contro il direttore dell’unità operativa presso cui era applicata.

In primo grado veniva inflitta la sanzione della censura, confermata dalla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie. Secondo quest’ultima, il medico, con il proprio comportamento, aveva violato sia il diritto alla riservatezza del collega sia il dovere deontologico sancito dall’art. 58, secondo cui «il rapporto tra medici deve ispirarsi ai principi di corretta solidarietà, di reciproco rispetto e di considerazione della attività professionale di ognuno».

La professionista ha proposto ricorso per Cassazione,  eccependo due motivi di censura:

  • incompetenza dell’Ordine ad esercitare il potere disciplinare, trattandosi di fatti verificatisi nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego e non di libera professione (violazione degli artt. 3 e 10 del Lgs. C.P.S. n. 233/1946);
  • legittimità della registrazione, trattandosi di una conversazione fra colleghi, finalizzata a tutelare un proprio diritto in sede giudiziaria (violazione degli artt. 24 Cost., 51 c.p. e 24 del D.Lgs. 196/2003, c.d. Codice Privacy).

La sentenza della Corte

La Cassazione accoglie nel merito il ricorso per il secondo motivo, mentre lo rigetta per il primo.  E cassa la decisione impugnata in riferimento al motivo accolto, con rinvio alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, in diversa composizione, anche per le spese di ciascun grado. Condanna  la parte soccombente al rimborso delle spese di giudizio.

Il Giudice di legittimità ribadisce, per quanto riguarda il primo motivo, il consolidato principio secondo cui l’Ordine può esercitare il potere disciplinare anche per comportamenti posti in essere nell’ambito del pubblico impiego, «purché il fatto sia suscettibile di pregiudicare il decoro della professione», essendo irrilevante che non si tratti di attività libero-professionale. Sono escluse, invece, le condotte strettamente riconducibili all’attività amministrativa dell’ente (richiamati in sentenza: Cass. Sez. 3, n. 8639 del 29/05/2003; Sez. 6 – 3, n. 17418 del 19/08/2011; Sez. 2, n. 16045 del 28/07/2020).

Il Collegio nell’accogliere il secondo motivo  ha censurato la valutazione della Commissione disciplinare, che aveva erroneamente fondato la sanzione non sui motivi di carattere soggettivo a base della condotta palesemente scorretta dell’interessato, ma su una presunta violazione della riservatezza e dei doveri deontologici ex art. 58 del relativo codice, trascurando che la registrazione era finalizzata alla tutela giudiziale di un diritto.

In primis, ha considerato che quanto contestato riguarda un illecito cosiddetto a condotta orientata e a forma libera, che, “al fine di sanzionare, sotto il profilo disciplinare, fatti omissivi o commissivi posti in essere da soggetti appartenenti a determinate categorie o tenuti ad osservare determinati comportamenti nei confronti di altri soggetti, rimanda, quanto alla definizione della condotta rilevante, a modelli o clausole di contenuto generale per l’impossibilità di identificare in via preventiva ed astratta tutti i possibili comportamenti materiali integranti la fattispecie”.  Per queste ragioni, ha concluso che, in questo caso, spetti al giudice di merito “collegare la previsione normativa astratta al caso concreto, valutando il comportamento dei singoli sotto il profilo disciplinare e facendo ricorso, ove necessario, a regole ricavabili, oltre che da specifiche previsioni di legge, anche […] da principi deontologici dettati all’interno di determinati sistemi”. E che a questo consegua la sindacabilità in sede di legittimità dell’attività interpretativa del Giudice del merito che “abbia espresso valutazioni palesemente erronee in diritto rispetto alle clausole generali richiamate dalla norma e al loro significato” .

Inoltre, per gli Ermellini, la Commissione centrale non si è conformata a un principio di diritto affermato nell’art. 24 del Codice della privacy,[i]secondo cui non è illecita la violazione del diritto alla riservatezza, cioè la condotta di registrazione d’una conversazione tra presenti in mancanza dell’altrui consenso, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa in giudizio”, sempre che i dati siano utilizzati per il periodo strettamente necessario al raggiungimento  delle finalità di difesa (con richiamo in sentenza  in materia di licenziamento disciplinare, di Cassazione civile, Sez. L, n. 31204 del 02/11/2021; Sez. L. n. 28398 del 29/09/2022).

Conclusioni

Riassumendo, la sentenza annotata conferma, innanzitutto, la legittimità del potere disciplinare dell’Ordine professionale, anche nei confronti di comportamenti tenuti nell’ambito del pubblico impiego, qualora pregiudichino il decoro della professione sanitaria. Ribadisce, poi, che non costituisce violazione della riservatezza la registrazione di una conversazione tra presenti effettuata da uno degli interlocutori, se volta a far valere il diritto a difesa.

Tali conclusioni sono confermate dall’evoluzione normativa conseguente all’adeguamento delle disposizioni del Codice privacy  alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679,  di cui si dà conto in nota a piè di pagina.

Più in generale, è da ricordare, per completezza, che la registrazione, costituendo una  “forma di memorizzazione fonica di un fatto storico” è un documento, di cui si può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo penale, secondo la disposizione del codice di procedura penale, ossia escludendo “le informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti” (art. 234 c.p.p). Può essere utilizzata anche nel processo civile a meno che la parte non la contesti, come previsto dal Codice Civile, secondo cui “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (art. 2712 c.c.).

Non è possibile neppure invocare il diritto alla riservatezza per sostenere la illegittimità dell’intercettazione (sia di una conversazione che di una telefonata), che non solo non opera quando è lo stesso titolare del relativo diritto a rinunciarvi, come nel caso in cui parli con altri, ma non è neppure tutelato dal Regolamento 679/2016/UE, che, come noto,  “non si applica al trattamento di dati personali effettuato da una persona fisica nell’ambito di attività a carattere esclusivamente personale o domestico e quindi senza una connessione con un’attività commerciale o professionale” (art. 2, comma 2, lett. c).

Di contro, la diffusione[ii] non è consentita senza l’assenso di tutti gli interlocutori, salvo che esista un interesse pubblico che l’ordinamento ritenga meritevole di tutela, quali quello di divulgazione giornalistica dei dati che risultino indispensabili per informare la collettività su accadimenti di interesse collettivo.

Come confermato dalla sentenza annotata, anche con ampi richiami giurisprudenziali, sono  ammesse deroghe alla rigida previsione della necessità del consenso del titolare dei dati personali quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, nel rispetto  dei limiti temporali e funzionali collegati a tale diritto.

Giuseppe Panassidi, avvocato.


[i] L’art. 24 del Codice della Privacy, nel testo originario, recitava che non era richiesto il consenso quando il trattamento, fra l’altro, “con esclusione della diffusione, è necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale” (D.Lgs 196/2003, comma 1, lett. f). L’articolo 24 del  d.lgs. 196/2003 è stato abrogato dal  d.lgs. 10.8. 2018, n. 101, di adeguamento della normativa del Codice della privacy al regolamento europeo. L’art. 2 del d.lgs. 101/2018 ha aggiunto al Codice privacy l’art. 2-octies, (Principi relativi al trattamento di dati relativi a condanne penali e reati), che, al comma 3, lett. g) consente il trattamento dei dati personali relativi a “esecuzione di investigazioni o le ricerche o la raccolta di informazioni per conto di terzi ai sensi dell’articolo 134 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. L’art. 59 del d.lgs. 196, come aggiornato dal d.lgs. 101, recita:  «Art. 59 (Accesso a documenti amministrativi e accesso civico). – 1. Fatto salvo quanto previsto dall’art. 60, i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, e la relativa tutela giurisdizionale, restano disciplinati dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi regolamenti di attuazione, anche per ciò che concerne i tipi di dati di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento e le operazioni di trattamento eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso. 1-bis. I presupposti, le modalità e i limiti per l’esercizio del diritto di accesso civico restano disciplinati dal decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33.».

[ii] Il trattamento per diffusione” si riferisce all’azione di rendere dei dati personali accessibili a soggetti indeterminati, cioè a un pubblico non specifico (es. pubblicazione online ), mentre il trattamento di  “comunicazione” implica la trasmissione dei dati a uno o più soggetti determinati o determinabili.


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