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Illegittimità costituzionale dell’obbligo dei concessionari di esternalizzare i servizi affidati senza gara6 min read

IN POCHE PAROLE….

La libertà d’impresa non può subire, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento.


Corte costituzionale, sentenza 23 novembre 2021, n. 218 [1], Presidente Coraggio – Redattore De Pretis


La previsione dell’obbligo a carico dei titolari di concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, di affidare completamente all’esterno l’attività oggetto di concessione costituisce una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al fine di tutela della concorrenza, in quanto lesiva della libertà di iniziativa economica del concessionario.

A margine

La pronuncia nasce dal ricorso al TAR Lazio di una società gestore di impianti d’illuminazione pubblica operante nei territori di alcuni Comuni della Lombardia con cui questa lamentava l’illegittimità delle linee guida n. 11 ANAC [2] («Indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all’articolo 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 [3], da parte dei soggetti pubblici o privati titolari di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture già in essere alla data di entrata in vigore del codice non affidate con la formula della finanza di progetto ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea») e, in via subordinata, prospettava l’illegittimità costituzionale delle medesime linee guida e dell’art. 177 del d.lgs. n. 50 del 2016 [3] in riferimento agli artt. 3, 11, 41, 76, 97 e 117 Cost. [4]

In seguito alla sentenza 15 luglio 2019, n. 9309, [5] con cui il Tar dichiara l’inammissibilità del ricorso, la Società si appella al Consiglio di Stato il quale, con sentenza del 19 agosto 2020, n. 5097 [6] solleva questioni di legittimità costituzionale sull’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 [7], e sull’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 [3], per violazione degli artt. 3, primo comma, 41, primo comma, e 97, secondo comma, della Cost. [4]

Le norme censurate obbligano i titolari delle concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, a esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, l’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture, relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro, nonché di realizzare la restante parte di tali attività tramite società in house o società controllate o collegate ovvero operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato.

La difesa erariale, costituita in giudizio, afferma che il legislatore – piuttosto che prevedere la decadenza della concessione affidata in difformità alla normativa vigente al momento dell’affidamento – avrebbe, con le norme censurate, «optato per il mantenimento in vita della stessa, introducendo specifici accorgimenti volti […] a recuperare la concorrenza mancata a monte e a riequilibrare la posizione di vantaggio goduta dai concessionari nel tempo».

La sentenza – Ad avviso della Corte, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost. [4] sono fondate.

Si ricorda che la libera iniziativa economica e i limiti al suo esercizio devono costituire oggetto, nel quadro della garanzia offerta dall’art. 41 Cost. [4] di una complessa operazione di bilanciamento.

Al riguardo si sottolinea che uno degli aspetti caratterizzanti della libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta spettante all’imprenditore: scelta dell’attività da svolgere, delle modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di corrispettivo.

Se, dunque, legittimamente in base a quanto previsto all’art. 41 Cost. [4], il legislatore può intervenire a limitare e conformare la libertà d’impresa in funzione di tutela della concorrenza, ponendo rimedio ex post al vulnus conseguente a passati affidamenti diretti avvenuti al di fuori delle regole del mercato, il perseguimento di tale finalità incontra pur sempre il limite della ragionevolezza e della necessaria considerazione di tutti gli interessi coinvolti. La libertà d’impresa non può subire infatti, nemmeno in ragione del doveroso obiettivo di piena realizzazione dei principi della concorrenza, interventi che ne determinino un radicale svuotamento, come avverrebbe nel caso di un completo sacrificio della facoltà dell’imprenditore di compiere le scelte organizzative che costituiscono tipico oggetto della stessa attività d’impresa.

Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte ritiene che la previsione dell’obbligo a carico dei titolari di concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, di affidare completamente all’esterno l’attività oggetto di concessione – mediante appalto a terzi dell’80 per cento dei contratti inerenti alla concessione stessa e mediante assegnazione a società in house o comunque controllate o collegate del restante 20 per cento – costituisca una misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito, in quanto tale lesiva della libertà di iniziativa economica, con la conseguenza dell’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 [3] e dell’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 [7], per violazione degli artt. 3, primo comma, e 41, primo comma, Cost. [4]

L’irragionevolezza dell’obbligo censurato si collega innanzitutto alle dimensioni del suo oggetto: la parte più grande delle attività concesse deve essere appaltata a terzi e la modesta percentuale restante non può comunque essere compiuta direttamente.

L’impossibilità per l’imprenditore concessionario di conservare finanche un minimo di residua attività operativa trasforma la natura stessa della sua attività imprenditoriale, e lo tramuta da soggetto (più o meno direttamente) operativo in soggetto preposto ad attività esclusivamente burocratica di affidamento di commesse, cioè, nella sostanza, in una stazione appaltante.

Né vale in proposito osservare che resterebbero comunque garantiti i profitti della concessione, giacché, anche a  prescindere da ogni considerazione di merito al riguardo, è evidente che la garanzia della libertà di impresa non investe soltanto la prospettiva del profitto ma attiene anche, e ancor prima, alla libertà di scegliere le attività da intraprendere e le modalità del loro svolgimento.

Nello stabilire un obbligo di tale incisività e ampiezza applicativa il legislatore ha poi omesso del tutto di considerare l’interesse dei concessionari che, per quanto possano godere tuttora di una posizione di favore derivante dalla concessione ottenuta in passato, esercitano nondimeno un’attività di impresa per la quale hanno sostenuto investimenti e fatto programmi, riponendo un relativo affidamento nella stabilità del rapporto instaurato con il concedente. Affidamento che riguarda, inoltre, anche al di là dell’impresa e delle sue sorti, la prestazione oggetto della concessione, e quindi l’interesse del concedente, degli eventuali utenti del servizio, nonché del personale occupato nell’impresa. Interessi tutti che, per quanto comprimibili nel bilanciamento con altri ritenuti meritevoli di protezione da parte del legislatore, non possono essere tuttavia completamente pretermessi, come risulta essere accaduto invece nella scelta legislativa in esame.

Per queste stesse ragioni, l’introduzione di un obbligo radicale e generalizzato di esternalizzazione, come quello disposto nella normativa censurata, non supera nemmeno – nello scrutinio del bilanciamento operato fra diritti di pari rilievo – la doverosa verifica di proporzionalità.

In conclusione, se la previsione legislativa di obblighi a carico dei titolari delle concessioni in essere, a suo tempo affidate in maniera non concorrenziale, può risultare necessaria nella corretta prospettiva di ricondurre al mercato settori di attività ad esso sottratti, le misure da assumere a tale fine non possono non tenere conto di tutto il quadro degli interessi rilevanti e operarne una ragionevole composizione, nella consapevolezza della complessità, come visto, delle scelte inerenti alla tutela da accordare alla libertà di iniziativa economica. Complessità che, d’altra parte, non sembra essere sfuggita allo stesso legislatore, che ha prorogato più volte il termine per l’adeguamento, fissandolo, da ultimo, al 31 dicembre 2022.

Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 [3] deriva l’illegittimità costituzionale dei successivi commi 2 e 3 i quali fissano il termine per l’adeguamento delle concessioni e disciplinano la verifica del rispetto dei limiti con riferimento al comma 1.

di Simonetta Fabris