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L’arbitrato negli appalti pubblici dopo la normativa anticorruzione4 min read

E’ infondata, con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 97, 102 e 111 della Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 241, comma 1, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, come sostituito dall’art. 1, comma 19, della legge n. 190 del  2012, che prevede, a pena di nullità, la preventiva autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione per il ricorso all’arbitrato negli appalti pubblici.  

E’ parimente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2,  della legge  6  novembre  2012,  n. 190, che estende l’applicazione del suddetto meccanismo autorizzatorio alle clausole compromissorie inserite nei contratti pubblici anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, con la sola eccezione degli arbitrati  nei  quali  gli  incarichi arbitrali siano  stati  conferiti  o  per  i  quali  sia  intervenuta nell’autorizzazione prima di tale data.  

Corte costituzionale, sentenza 13 maggio – 9 giugno 2015, n.108 [1], Pres. A. Criscuolo, Red. D de Pretis


La questione di legittimità 

La questione di legittimità costituzionale – sollevata da un collegio arbitrale – riguarda il  meccanismo autorizzatorio per il ricorso all’arbitrato negli appalti pubblici introdotto dal legislatore con la normativa “anticorruzione” del 2012, e la relativa disciplina transitoria che ne estende l’applicazione alle clausole compromissorie inserite nei contratti pubblici anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, con la sola eccezione degli arbitrati  nei  quali  gli  incarichi arbitrali siano  stati  conferiti  o  per  i  quali  sia  intervenuta nell’autorizzazione prima di tale data.


La sentenza

La Corte ha ritenuto infondate ambedue le questioni sottoposte al suo scrutinio, con ampie motivazioni.

Per quanto riguarda il nuovo regime autorizzatorio dell’arbitrato, introdotto dalla legge n. 190 del 2012 [2] con la modifica dell’art. 241, comma 1, del codice degli appalti [3], la Corte ha ricordato, innanzitutto, che la scelta discrezionale del legislatore di subordinare a una preventiva e motivata autorizzazione amministrativa il deferimento  ad  arbitri  delle controversie  derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi  a  lavori,  servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, può essere censurata solo con riferimento al principio di ragionevolezza (in senso conforme, sentenza n. 376 del 2001 [4]).

E sotto tale aspetto ha valutato che l’art, 241, comma 1, del codice dei contratti non  sia manifestamente irragionevole,  configurandosi il meccanismo autorizzatorio come  un  mero  limite  all’autonomia contrattuale, la cui garanzia costituzionale non è incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali, quali quelli connessi alla generale finalità di prevenire l’illegalità nella pubblica amministrazione cui è dichiaratamente ispirata la nuova disciplina.

Per la discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nell’individuare i limiti del ricorso all’arbitrato nella materia dei contratti pubblici, la Corte ha ritenuto che non presenti caratteri di manifesta irragionevolezza la censura sollevata da remittente relativa al diverso trattamento normativo riservato agli arbitrati di diritto comune

Per la Corte la prevista autorizzazione non crea, come ritenuto dal remittente, alcun privilegio processuale della pubblica amministrazione idoneo a ledere il principio della parità delle parti nel processo. Ciò in quanto l’autorizzazione si inserisce in una fase antecedente l’instaurazione del giudizio – e la stessa scelta del contraente – e non determina pertanto alcuno squilibrio di facoltà processuali a favore della parte pubblica. Peraltro, lo stesso art. 241 del codice degli appalti prevede, al comma 1-bis, un adeguato meccanismo di tutela della libertà contrattuale con la possibilità della parte privata qualora l’autorizzazione sia concessa, di rifiutare l’inserimento della clausola compromissoria nel contratto, con una semplice comunicazione alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione.

Per la Corte, l’attribuzione del potere di autorizzare ogni singolo arbitrato all’organo di governo dell’amministrazione anziché alla dirigenza, pur trattandosi di un atto di gestione, non è irragionevole per due ordini di motivi. Primo. L’ampia discrezionalità di cui gode l’amministrazione nel concedere o negare l’autorizzazione non è riducibile alla categoria dei semplici apprezzamenti tecnici, involgendo essa valutazioni di carattere politico-amministrativo sulla natura e sul diverso rilievo degli interessi caso per caso potenzialmente coinvolti nelle controversie derivanti dall’esecuzione di tali contratti. Secondo. La scelta comporta, inoltre, giudizi particolarmente delicati, in quanto connessi all’esigenza perseguita dalla disposizione censurata di prevenire e reprimere corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione.

Con riferimento alla seconda questione di legittimità costituzionale relativa all’applicazione del nuovo regime anche alle clausole compromissorie inserite in contratti stipulati prima del 28 novembre 2012, data di entrata in vigore della legge n. 190, con la sola eccezione degli arbitrati già conferiti o autorizzati a tale data, la Corte ha motivato l’esito favorevole dello scrutinio di costituzionale con la considerazione che: “Lo ius superveniens consistente nel divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l’effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, bensì quello di sancirne l’inefficacia per il futuro, in applicazione del principio, espresso dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la nullità di un contratto o di una sua singola clausola, prevista da una norma limitativa dell’autonomia contrattuale che sopravvenga nel corso di esecuzione di un rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la sua singola clausola si devono ritenere non più operanti.”

Giuseppe Panassidi