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Fondazioni culturali e vincoli pubblicistici9 min read

Alle fondazioni culturali partecipate da ente pubblico si applicano i vincoli pubblicistici indipendentemente dall’entità della partecipazione: il ricorrere di determinati elementi, e cioè la costituzione/partecipazione, da parte di uno o più enti pubblici, di una persona giuridica privata, finalizzata alla realizzazione di un fine pubblico con l’impiego di finanziamenti pubblici e con modalità di gestione e controllo direttamente collegabili alla volontà degli enti soci, rende, di fatto, la persona giuridica privata un semplice modulo organizzativo dell’ente pubblico socio, al pari di altre formule organizzative aventi parimenti natura pubblicistica (aziende speciali e istituzioni).

La partecipazione da parte dell’Ente pubblico rende, in altri termini, la persona giuridica privata un’entità strumentale dell’Ente stesso, ovvero una modalità di gestione dell’interesse generale perseguito, indipendentemente dalla partecipazione maggioritaria o minoritaria.

Corte dei  Conti Sezione Regionale di Controllo per il Lazio, 24 luglio 2913, 151/2013 [1]Pres. Faso, Rel. Scalia.

 Il quesito

Il Comune di Roma Capitale chiede di conoscere, fra l’altro, l’avviso della Corte dei conti sull’applicabilità delle procedure e dei regimi assunzionali alle fondazioni di diritto privato partecipate dallo stesso Comune. E, in caso affermativo, se la normativa si applichi indipendentemente dalla misura della partecipazione dell’Ente locale, oppure solo in caso di una partecipazione maggioritaria. concernente la natura giuridica e i conseguenti vincoli pubblicistici applicabili alla fondazione “Museo della Shoah”)

 Il parere

Con il parere 151/2013, la Sezione regionale di controllo per il Lazio ritiene alle fondazioni e associazioni costituite/partecipate, da parte di uno o più enti pubblici, finalizzate alla realizzazione di un fine pubblico con l’impiego di finanziamenti pubblici e con modalità di gestione e controllo direttamente collegabili alla volontà degli enti soci, si applicano i vincoli pubblicistici stabiliti per il personale.

In quest’ottica, la nozione di partecipazione maggioritaria o minoritaria alla fondazione da parte dell’ente pubblico risulta perdere la pregnanza che assume, invece, per le società, dove la misura della partecipazione al capitale sociale è direttamente proporzionale all’influenza maggioritaria o dominante nell’assemblea ordinaria, ai sensi dell’articolo 2359 c.c..

Commento

La Corte dei conti, con il parere che si annota, inquadra le fondazioni di partecipazione soffermandosi, in particolare, sulla loro qualificazione giuridica  rispetto agli enti pubblici che partecipano ad esse, e il conseguente regime normativo a cui devono essere sottoposte .

 Va riconosciuta preliminarmente l’utilità del parere in questione perché esso ordina, chiarisce e sistematizza gli elementi che si sono sedimentati nel tempo e che permettono di inquadrare in modo esaustivo la  figura giuridica delle fondazioni di partecipazione in ambito pubblico. Ma si deve al contempo rilevare che una conclusione a cui giunge il Collegio laziale evoca dei problemi  più che risolverli, e suscita più di un dubbio.

Appare, infatti, difficilmente interpretabile la tesi secondo cui i “…  vincoli pubblicistici …   sono da applicare agli organismi partecipati di cui trattasi, in quanto moduli organizzativi dell’Ente locale per l’esercizio di funzioni generali proprie. In quest’ottica, la nozione di partecipazione maggioritaria o minoritaria alla fondazione da parte dell’ente pubblico risulta perdere la pregnanza che assume, invece, per le società, dove la misura della partecipazione al capitale sociale è direttamente proporzionale all’influenza maggioritaria o dominante nell’assemblea ordinaria, ai sensi dell’art. 2359 c.c. …”

Infatti, mentre è pacifico che i vincoli pubblicistici debbano essere applicati a quegli enti che possiedono determinate caratteristiche ormai bene individuate, e puntualmente la Corte dei Conti laziale richiama la più recente e significativa giurisprudenza sul tema,  più complessa e non scontata è l’applicazione dei suddetti vincoli ad enti che hanno natura giuridica privatistica, che non possono essere classificati come soggetti pubblici, ma che tuttavia sarebbero riconoscibili come “moduli organizzativi” dell’Ente locale, e quindi  ad esso strumentali.

Assume particolare evidenza, in proposito, la sostanziale equivalenza che la Corte laziale applica alla partecipazione maggioritaria o minoritaria alla fondazione da parte dell’ente pubblico e quindi    l’irrilevanza di tale elemento ai fini della classificazione sostanziale  (pubblico o privato) per l’ applicazione ad esso dei vincoli pubblicistici.

In altri termini: la tesi della Corte laziale conduce a concludere che anche una fondazione di partecipazione, nella quale la presenza pubblica sia minoritaria e non dominante, in quanto assegnataria di un servizio pubblico privo di rilevanza economica, si traduce di fatto in un modulo organizzativo dell’ente pubblico partecipante, in conseguenza e per effetto della tipologia e alle modalità del servizio espletato.

In sostanza, la Corte di Conti laziale sembra utilizzare il concetto di ente strumentale in una accezione del linguaggio corrente secondo cui si tratterebbe di un ente che costituisce uno “strumento” o “modulo organizzativo” attraverso cui un altro ente pubblico esercita funzioni amministrative altrimenti proprie dell’ente di cui esso è emanazione e ciò prescinderebbe o comunque non renderebbe rilevanti i parametri di confronto per definirne la natura pubblica dell’ente, che sarebbe comunque tale e, a prescindere, proprio in relazione alla sua “strumentalità” .

Questa tesi confligge con consolidati parametri per la identificazione della natura pubblicistica o privatistica di un ente, considerati finora pacificamente necessari per la sottoposizione di quell’ente al sistema dei vincoli pubblicistici.

Vediamo perché e con quali esiti.

Come è noto, per affermare se una determinata entità costituisca un organismo di diritto pubblico, è necessario verificare la presenza di tutti e tre gli elementi previsti dalla consolidata elaborazione normativa comunitaria (Public Equivalent Body, secondo la direttiva 2004/18/CE, art. 1 comma 9) trasfusi nella previsione di cui all’art. 3 c. 26 del D.Lgs 163 del 2006.

Occorre dunque:

a)   che l’organismo sia dotato di personalità giuridica (requisito soggettivo);

b)   che l’organismo sia istituito per soddisfare specificamente “esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale” (requisito cosiddetto teleologico);

c)   che l’organismo sia collegato allo Stato o a enti pubblici da un rapporto di finanziamento dell’attività o da un controllo stabile nell’attività operativa nel senso che la sua attività sia finanziata in modo maggioritario da Stato, enti territoriali o altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta ad un controllo da parte di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà designati dallo Stato dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico (requisito di controllo secondo l’art. 1 della direttiva 93/37 CEE).

Sempre secondo consolidata giurisprudenza sia europea che interna, (per tutte Cassazione Civile Sez. Unite, sent. n. 8225 del 07-04-2010)  per aversi un organismo di diritto pubblico devono ricorrere cumulativamente tutti e tre i suddetti requisiti.

La  particolare posizione dei Giudici contabili laziali confligge altresì con la caratterizzazione degli  “enti strumentali “ operata dal DPCM 28 dicembre 2011 che, all’art. 21, definisce ente strumentale delle Regioni o degli enti locali di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, l’azienda o l’ente, pubblico o privato, nel quale la regione o l’ente locale:

a) ha il possesso, diretto o indiretto, della maggioranza dei voti esercitabili nell’ente o nell’azienda;

b) ha il potere assegnato da legge, statuto o convenzione di nominare o rimuovere la maggioranza dei componenti degli organi decisionali, competenti a definire le scelte strategiche e le politiche di settore, nonché a decidere in ordine all’indirizzo, alla pianificazione ed alla programmazione dell’attività di un ente o di un’azienda;

c) esercita, direttamente o indirettamente, la maggioranza dei diritti di voto nelle sedute degli organi decisionali, competenti a definire le scelte strategiche e le politiche di settore, nonché a decidere in ordine all’indirizzo, alla pianificazione ed alla programmazione dell’attività dell’ente o dell’azienda;

d) ha l’obbligo di ripianare i disavanzi, nei casi consentiti dalla legge, per percentuali superiori alla propria quota di partecipazione;

e) esercita un’influenza dominante in virtù di contratti o clausole statutarie, nei casi in cui la legge consente tali contratti o clausole. I contratti di servizio pubblico e di concessione stipulati con enti o aziende che svolgono prevalentemente l’attività oggetto di tali contratti comportano l’esercizio di influenza dominante.

I requisiti di cui alle lettere da a) ad e),  stante il tenore letterale della previsione normativa appena richiamata, sono evidentemente cumulativi.

Né vengono in soccorso della tesi dei giudici laziali le classificazioni di enti di diritto privato in “controllo pubblico” e di enti di diritto privato “regolati o finanziati” rinvenibili all’art. 1 del decreto legislativo 8 aprile 2013 n. 39.

I primi sono definiti le società,  o anche altri enti di diritto privato, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure quegli  enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, pure in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi.

I secondi sono definiti invece le società e gli altri enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, nei confronti dei quali l’amministrazione:

1) svolga funzioni di regolazione dell’attività principale che comportino, anche attraverso il rilascio di autorizzazioni o concessioni, l’esercizio continuativo di poteri di vigilanza, di controllo o di certificazione;

2) abbia una partecipazione minoritaria nel capitale;

3) finanzi le attività attraverso rapporti convenzionali, quali contratti pubblici, contratti di servizio pubblico e di concessione di beni pubblici.

A tutto ciò consegue che secondo il nostro attuale ordinamento interno un “ente pubblico strumentale” per essere definito tale deve possedere, in armonica integrazione e coesistenza, sia i caratteri individuati dall’art. 21 del DPCM 28 dicembre 2011, sia quelli stabiliti  dall’art. 3 c. 26 del D.Lgs 163 del 2006.

Per quanto da parte di un ente dotato di personalità giuridica di diritto privato vi sia l’esercizio di  funzioni proprie di un ente locale, ancorché conferite al medesimo  per il soddisfacimento di esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, appare dunque assai arduo far derivare pressoché automaticamente la qualificazione dello stesso come “ente pubblico strumentale”.

Certo si può convenire con la tesi dei giudici contabili laziali ma, paradossalmente, nel senso diametralmente opposto a quello da essi inteso con l’affermazione secondo cui la nozione di partecipazione maggioritaria o minoritaria ad una fondazione da parte dell’ente pubblico risulta perdere pregnanza e pertanto anche una partecipazione minoritaria non esime dalla applicazione all’ente partecipato di vincoli pubblicistici .

 Se è vero infatti,  quanto meno rispetto alla “strumentalità” (nel senso inteso dalla Corte dei Conti)  dell’ ente partecipato, che l’entità della partecipazione vede venir meno la rilevanza del discrimine fra partecipazione maggioritaria e partecipazione minoritaria, ciò dovrebbe valere nel senso che anche una partecipazione maggioritaria, laddove non venissero soddisfatti i rimanenti requisiti di “dominio” pubblico e di strumentalità derivanti dal combinato fra art. 21 del DPCM 28 dicembre 2011 e art. 3 c. 26 del D.Lgs 163 del 2006,  possa non avere pregnanza e cioè non concretizzare  la condizione per l’applicazione di vincoli pubblicistici all’ente partecipato, in sostanza non faccia di esso un ente sostanzialmente pubblico.

Il sedimentarsi di norme, giurisprudenza, pareri non sempre armonici per non dire contradditori  genera disorientamento, insieme alla sempre più pressante esigenza di una legislazione statale e regionale chiara nel variegato ed essenziale campo della valorizzazione dei beni culturali, in particolare, ma anche di tutti i servizi a carattere sociale privi di rilevanza economica,  attraverso quell’ormai sempre più indispensabile strumento di integrazione fra risorse pubbliche e private  costituito della fondazioni di partecipazione.

                Daniele Perotti, segretario generale del Comune di Bergamo