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Sezione Lombardia, censure sulle spese di rappresentanza3 min read

Con un’interessante pronuncia (n° 264/2015), la Sezione della Lombardia torna sul tema delle “spese di rappresentanza” sui cui tradizionalmente, anche in sede giurisdizionale, la magistratura contabile ha sempre manifestato una certa attenzione.

E’ interessante sottolineare preliminarmente che la deliberazione trae origine dalla trasmissione operata dal comune dell’apposito prospetto recante le spese di rappresentanza, sulla base di quanto stabilito dall’art. 16, comma 26, della L. 148/2011.

Quest’ultima previsione, tra l’altro, obbliga pure gli enti ad eseguire la pubblicazione dei dati e delle informazioni sul sito istituzionale dell’ente, entro 10 giorni dall’approvazione del rendiconto, mediante un apposito prospetto (approvato con il D.M. 23.1.2012) che ne costituisce, tra l’altro, un allegato obbligatorio.

Nel caso esaminato, in particolare, è emersa l’imputazione, tra le spese di rappresentanza, di talune fattispecie che presentavano profili di criticità e quindi illegittimità.

Quadro complessivo

Preliminarmente, tuttavia, la Sezione richiama il concetto di spese di rappresentanza, destinate (secondo una consolidata impostazione) «ad accrescere il prestigio e la reputazione della singola pubblica amministrazione verso l’esterno», ma anche le condizioni che ne rendono legittimo il sostenimento.

Deve trattarsi, infatti, di oneri aventi lo scopo di consentire all’ente locale di intrattenere rapporti istituzionali e di manifestarsi all’esterno in modo coerente ai propri fini pubblici ma anche caratterizzati dal requisito dell’inerenza, ossia della coerenza con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il decoro e il prestigio dell’ente stesso.

Rilevante è parimenti l’elemento dell’ufficialità, nel senso che esse devono finanziare manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.

Di conseguenza, l’attività di rappresentanza avviene, in eventuali manifestazioni ufficiali, attraverso gli organi muniti, per legge o per statuto, del potere di spendita del nome della pubblica amministrazione di riferimento.

In termini più operativi, poi, tali oneri devono essere rigorosamente giustificati, con l’esposizione analitica  dell’interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto fra l’attività dell’ente e la spesa erogata, della qualificazione del soggetto destinatario nonché dell’occasione in cui è avvenuto il sostenimento.

Congruità della spesa

Sul piano più squisitamente economico-finanziario, invece, si rende necessario rispettare i due canoni della sobrietà e della congruità della spesa di rappresentanza, sia rispetto al singolo evento finanziato sia rispetto alle dimensioni e ai vincoli di bilancio.

Ecco perché, secondo la Corte dei Conti, sarebbe opportuno che ogni ente, mediante un’apposita disciplina regolamentare, si dotasse di regole orientate a disciplinare i casi e i modi in cui è sostenibile proprio la spesa di rappresentanza.

Esito

Partendo da tale quadro d’insieme, la pronuncia arriva a censurare talune delle spese sostenute, in primis relative ad alcuni rinfreschi.

Secondo la magistratura contabile, infatti, in assenza dei canoni precedentemente indicati (di rappresentatività ed ufficialità), esse si configurano quale mero atto di liberalità nei confronti di determinati soggetti individuati dall’amministrazione comunale che, pertanto, non può essere ricondotto al concetto di “spese di rappresentanza”.

Parimenti non ammissibili, poi, si presentano quelle fattispecie (nel caso esaminato, acquisto targhe per manifestazioni sportive) non caratterizzate (ancora) da ufficialità ovvero dal requisito dell’inerenza diretta, che finiscono con il tradursi in una mera liberalità.

Né l’ente può giustificare l’onere sostenuto attraverso una mera auto-qualificazione della spesa in termini di spesa sociale, laddove detta spesa non sia ontologicamente riconducibile a tale tipologia d’intervento.

Il principio ordinatore in materia, infatti, è espresso da specifiche disposizioni legislative, che qualificano come interventi sociali «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia».

Da tale indicazione normativa l’ente non può prescindere ai fini dell’imputazione della spesa, evitando comunque qualificazioni apodittiche che possano alterare la corretta rappresentazione delle diverse tipologie di spesa in bilancio.