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Il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico7 min read

IN POCHE PAROLE…

Il 10 marzo 2021, il Governo  ha stipulato con la triplice sindacale il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, molto enfatizzato dai mass media. L’impressione è che si tratti solo di un documento zeppo di petizioni di principio, già previste da  norme e contratti nazionali di lavoro da tempo in vigore, e di buoni propositi in passato disattesi.

Il documento-PDF [1]


Il Patto siglato da Governo e sindacati è il solito accordo farcito di tanti buoni propositi e petizioni di principio, oppure un impegno serio che segna l’inizio di una nuova stagione di effettivo rinnovamento per la pubblica amministrazione ?

E’ difficile rispondere a questa domanda, anche perché l’esperienza del passato consiglia molta prudenza .

L’unica certezza è che a guidare  questo processo è una vecchia conoscenza di Palazzo Vidoni. Un (già) contraddittorio Ministro della pubblica amministrazione della fine del primo decennio di questo Secolo. Accanito sostenitore  dei “tornelli” e della lotta, esagerata e demagogica, “ai furbetti del cartellino” e ai dipendenti pubblici fannulloni, chiuso, quindi, in una visione coerente con un modello organizzativo burocratico-gerarchico basato sui controlli delle presenze e delle prestazioni, ma poco attento a valorizzare la responsabilizzazione del personale sui risultati. Un Ministro artefice del blocco delle assunzioni che, protrattosi  negli anni,  ha privato le organizzazioni pubbliche del capitale umano necessario ad assicurare i servizi e ha incentivato il ricorso al settore privato, con l’effetto di  aumentare il tasso di invecchiamento  delle organizzazioni rimaste per lunghi anni senza ricambi generazionali. L’età media dei dipendenti pubblici è  di 50,7 anni, con il 16,9% di over 60 e appena il 2,9% under 30, secondo un’indagine Fpa 2020.

Ma nello stesso tempo un Ministro – è  corretto  ricordarlo – che nel  2009 ha rilanciato il modello di amministrazione per obiettivi, già presente in embrione nelle precedenti riforme, basato sulla valorizzazione del merito e su sistemi di misurazione e valutazione della performance, organizzativa e individuale (L. 15/2019 e D.Lgs n. 150/2019 [2]). Modulo organizzativo, però, rimasto ad oggi pressoché inattuato,  nonostante il  tentativo di sola facciata del Governo Renzi di rafforzarlo con la riforma del 2017 (D.lgs. 74/2017 [3]),  a causa , fra l’altro, dell’assoluto disinteresse dei preposti politici al tema, di cui a volte ignorano anche i più semplici aspetti e, soprattutto, della mancanza di effettiva autonomia degli organi tecnici di controllo (OIV e Nuclei di valutazione), nominati dal vertice degli stessi enti controllati a seguito di formali avvisi di selezione ma nel libero esercizio esercizio di una eccessiva discrezionalità decisionale.

Adesso lo stesso Ministro,  in  versione “alto profilo” 2021,  non parla di dipendenti pubblici “fannulloni” da esporre al pubblico ludibrio,  ma di “una comunità di 3,2 milioni di donne e di uomini che hanno servito e servono il Paese in uno dei momenti più difficili della nostra storia recente“, del “dovere di restituire dignità, orgoglio, autorevolezza e valore a chi lavora per la nostra amministrazione” e di  “favorire un rapido ricambio generazionale” (Linee programmatiche 9 marzo 2021 [4], già peraltro presentate il 12 gennaio scorso al Parlamento dal precedente Governo).

Il Patto

Per superare l’emergenza sanitaria, economica e sociale, il Patto, dunque, colloca tra le priorità  la creazione di una “buona amministrazione”, che, ricorda il documento,  richiede uno straordinario impegno finanziario, progettuale e attuativo e che verte sul ruolo propulsivo delle donne e degli uomini della Pubblica Amministrazione. E  questo è sicuramente un impegno positivo.

Si legge ancora nel testo che “il Patto intende potenziare la Pubblica Amministrazione attraverso la semplificazione dei processi e un massiccio investimento nel capitale umano”.

In questa direzione, il Patto non lesina buoni intenti: semplificazione dei processi, flessibilità organizzativa, tempestività dell’azione amministrativa, lavoro agile, digitalizzazione, formazione dei pubblici dipendenti, piano delle competenze.

Molti di queste petizioni di principio, però, sono già contenute in leggi vigenti da tempo.

La semplificazione dei processi amministrativi è da molti anni il titolo e il fine di numerosi leggi e decreti di riforma. Sotto l’aspetto normativo tutto è stato fatto. È stato sottratto alla discrezionalità dell’amministrazione il termine del procedimento, da tempo fissato per legge o regolamento; sono stati introdotti  istituti di semplificazione documentale (autodichiarazioni, autocertificazioni) e di semplificazione  procedimentale (silenzio – assenso) e di liberalizzazioni di diverse attività private, che possono essere iniziate su semplice denuncia o comunicazione alla PA, e, da ultimo ma non certo per importanza, la conferenza di servizi per regolare contestualmente gli interessi pubblici  affidati alla cura di amministrazioni diverse.

La flessibilità organizzativa è già prevista fra i criteri da seguire in materia di organizzazione  dall’art. 2, comma 1, del testo unico sul pubblico impiego del 2001 (D.Lgs n. 165/2001).

L’incremento della rapidità di azione amministrativa è un rimedio ai ritardi su cui da anni punta  la L. 241 del 1990 [5] agli articoli 1, 2 e 2-bis, novellati più volte proprio per rafforzare la speditezza dell’agere pubblico.

Il lavoro agile (smart working) è un istituto già attuato in via semplificata a causa della pandemia, e di recente completato con le modifiche introdotte dal c.d. decreto Rilancio del 2020 (D.L. 34 del 2020 [6]) all’art. 14 della L. 124 del 2015 [7], e con le Linee Guida approvate a dicembre scorso dal precedente Ministro che prevedono l’obbligo delle pubbliche amministrazioni di dotarsi di un apposito piano organizzativo, il cd. POLA (DM 9 dicembre 2020 [8]).

L’impegno a effettuare investimenti nella “digitalizzazione” è già previsto in diverse disposizioni che prescrivono alle pubbliche amministrazioni di utilizzare gli strumenti informatici e telematici nei rapporti interni, con le altre  amministrazioni e con i cittadini (art. 3-bis della L. 241/1990 [5], specie dopo la novella introdotta dal  D.L. 76 del 2020,  [9]Codice dell’amministrazione digitale [10] del 2005,  modificato dall’art. 12 dello stesso D.L. 76/2020).

La promessa partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori, con l’avvio di una nuova stagione di relazioni fondata sul confronto con le organizzazioni sindacali non è di certo una scoperta del 2021.

La definizione di un non meglio precisato piano delle competenze per costruire la programmazione dei fabbisogni e le assunzioni del personale sembra la ripetizione di quanto previsto con il Piano dei fabbisogni del personale ex art. 6-ter del D.Lgs. 165/2001 [11].

Per quanto riguarda, in particolare, il diritto – dovere del pubblico dipendente a percorsi formativi  di eccellenza, adatti alle persone e certificati, il Ministro Brunetta di certo non ha dimenticato di avere firmato nel 2010 la direttiva n. 10 ad  oggetto la “programmazione della formazione delle amministrazioni pubbliche”, anch’essa piena di petizioni di principio. E rammenta sicuramente che la Funzione pubblica aveva emanato una pressoché analoga direttiva [12] nel 2001. E, soprattutto, che esiste una Scuola Nazionale per la Pubblica Amministrazione (SNA [13]), che, come si legge sullo stesso sito della Scuola, è stata “fondata nel 1957 come parte integrante della Presidenza del Consiglio dei Ministri, …” ed è un’“istituzione deputata a selezionare, reclutare e formare i funzionari e i dirigenti pubblici … punto centrale del Sistema unico del reclutamento e della formazione pubblica, istituito per migliorare l’efficienza e la qualità della Pubblica  Amministrazione italiana”.

ll Ministro adesso vuole rilanciare  il Formez, un’associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato, in house sempre alla Presidenza del Consiglio – Dipartimento della Funzione Pubblica, che, già da diversi anni (troppi per pensare di utilizzarla ancora), avrebbe dovuto operare per l’attuazione delle politiche di riforma e modernizzazione della PA e, più in generale, della strategia di promozione dell’innovazione e di rafforzamento della capacità amministrativa.

Repetita iuvant

Le cose ripetute giovano, ma stancano. L’accordo siglato sembra essere una sintetica raccolta di detti e ridetti e ormai usurati buone intenzioni (digitalizzazione, semplificazione, valorizzazione delle competenze, crescita professionale dei pubblici dipendenti, partecipazione, ecc.), ripescati da documenti, leggi,  accordi e  CCNL degli ultimi 30 anni e riscaldati in un verboso documento, enfaticamente definito “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”.

I sindacati (non tutti, ma i più rappresentativi) hanno dato il loro  assenso anticipato al Patto, ottenendo in cambio l’impegno del Governo a emanare  gli indirizzi  all’Aran per  avviare  i rinnovi contrattuali del triennio 2019-2021.

E’ questo l’unico putto concreto del Patto, da salutare con favore; per il resto aspettiamo a leggere la riforma e le conseguenti azioni attuative e dopo applaudiremo o fischieremo.

Giuseppe Panassidi, avvocato