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La mobilità è assunzione17 min read

La complicatissima attuazione della normativa di riforma delle province [1] ha riportato alla ribalta il problema della corretta configurazione della mobilità come assunzione o meno.

La circolare congiunta del Ministero della pubblica amministrazioni e del Ministero per gli affari regionali, 1/2015 [2], come è noto, è intervenuta indirettamente sull’argomento, considerando vietato alle amministrazioni acquisire personale in mobilità, con la sola (immotivata) eccezione delle procedure già avviate nel 2014.

In questo modo, la circolare ha, sia pure solo parzialmente, respinto la teoria proposta da molti  secondo la quale la mobilità sarebbe stata possibile anche nel regime di congelamento delle assunzioni fissato dall’articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014 [3], proprio perché esse non sarebbero assunzioni, ma cessione di contratto (in questa Rivista, leggi “Blocco delle assunzioni e mobilità”) [4].

Al di là di quanto possa evincersi dalla circolare 1/2015 [2], che non appare del tutto decisiva sul punto, è, allora, necessario provare ad approfondire in maniera specifica il tema per verificare se davvero la mobilità possa considerarsi come fattispecie “altra” rispetto a quella dell’assunzione.

Non si utilizzeranno, allo scopo, riferimenti agli effetti finanziari. E’ noto che la normativa, la Corte dei conti, la Ragioneria generale dello Stato, considerano la mobilità “neutra” appunto sul piano finanziario, se avvenga tra due amministrazioni entrambe soggette a limiti alle assunzioni. Infatti, in questo caso la mobilità non genera una vacanza di organico potenzialmente copribile a seguito di concorso e, quindi, nuova spesa, ma comporta semplicemente lo spostamento della titolarità della spesa relativa ad un medesimo dipendente, da un ente (quello di provenienza) ad un altro (quello di destinazione). Sul piano strettamente finanziario, dunque, si suole affermare che la mobilità “non è un’assunzione”. Ma è evidente che è una formula per sintetizzare gli aspetti connessi agli oneri finanziari, non utile per determinare, invece, la fattispecie sostanziale.

Per poter affermare con sicurezza che la “cessione del contratto” di lavoro sia qualcosa di diverso da un’assunzione, occorre allora iniziare ad indagare l’istituto della cessione del contratto, regolata dagli articoli da 1406 a 1410 del codice civile. Ai sensi dell’articolo 1406 “ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta”.

La cessione del contratto, dunque, è un negozio trilaterale, in quanto oltre al consenso del cedente e del cessionario è necessario anche quello del ceduto, poiché il nuovo rapporto si instaura tra questi ed un soggetto diverso da quello scelto in origine.

La cessione del contratto di lavoro ha alcune particolarità. Nel lavoro privato essa è conosciuta ed indagata in pratica quasi esclusivamente come iniziativa che un datore fa nei confronti di un altro datore, secondo lo schema per il quale cedente è il datore A, cessionario il datore B, mentre contraente ceduto è il lavoratore C. In particolare, il fenomeno è indagato nell’ambito della cessione di azienda o di ramo di azienda, combinando le disposizioni del codice citate prima con quanto prevede l’articolo 21121 [5], sempre del codice civile.

La relazione tra cessione del contratto di lavoro e cessione di azienda o ramo di azienda nell’ambito privato è chiaramente dovuta alla circostanza che nel sistema privato, considerata la piena autonomia giuridica di ciascun datore, non esiste il “passaggio diretto” o trasferimento di un lavoratore da un’azienda ad un’altra, ma solo l’ipotesi della cessazione del rapporto di lavoro e contestuale attivazione di un nuovo rapporto. La cessione del contratto, invece, si ha qualora un nuovo datore subentri al precedente nell’ambito dell’esecuzione della cessione di azienda o di ramo d’azienda e, rispetto al fenomeno della mobilità nell’ambito del lavoro pubblico, vi è una differenza sostanziale. La mobilità implica il trasferimento per passaggio diretto del lavoratore dall’ente A all’ente B, con modifica sostanziale della sede e delle modalità operative del rapporto di lavoro; nel trasferimento di azienda o di ramo di azienda, invece, in linea generale il lavoratore mantiene inalterata prestazione e sede, perché è il nuovo datore che subentra al cedente nella posizione giuridica.

Il caso della cessione del contratto operata da un datore quale cedente, verso un datore quale cessionario, col lavoratore nel ruolo di ceduto, nell’ambito di una cessione di azienda o di ramo di azienda, rappresenta il modello perfetto di cessione del contratto, con piena e totale continuità del suo operare e semplice novazione soggettiva della parte datoriale.

Se si analizza meglio la fattispecie pubblicistica della mobilità e, in particolare, quella della mobilità volontaria disciplinata dall’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 [6], ci si accorge che essa è molto diversa da quella regolata dall’ordinamento civilistico.

Intanto, scopriamo che nel lavoro pubblico il contraente cedente non è mai un datore pubblico, bensì il lavoratore. L’articolo 30, comma 1, primo periodo, del d.lgs 165/2001 [6] è molto chiaro: “le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell’amministrazione di appartenenza”.

Nel caso della mobilità, dunque, è richiesto per legge un assenso (ovviamente esplicito) preventivo, ipotesi che nella cessione del contratto civilistica può anche non verificarsi, dal momento che il consenso del ceduto può essere espresso anche per via successiva. L’articolo 30, invece, lo configura come condizione d’efficacia del passaggio diretto.

Poiché il soggetto chiamato dalla legge ad esprimere l’assenso al trasferimento (cioè a prestare consenso alla cessione del contratto) è l’amministrazione che conduce il rapporto di lavoro col dipendente intenzionato a trasferirsi, è evidente che questa amministrazione, e non il dipendente, è il contraente ceduto; il dipendente è il cedente; l’amministrazione di destinazione è il cessionario.

Ciò impedisce radicalmente che la regolazione del rapporto di lavoro del contraente cedente resti assolutamente identica. Infatti, a differenza del caso della cessione di ramo d’azienda, nella quale a parità di svolgimento della mansione e della dotazione aziendale (macchinari, mezzi, patrimonio e sede) cambia solo titolarità del ruolo di datore di lavoro, perché il lavoratore resta nello stabilimento a svolgere il precedente lavoro, con la mobilità il lavoratore pubblico va a prestare la sua attività lavorativa presso un differente datore. E sarà impiegato, sì, nelle medesime mansioni, ma presso diverse sedi, presumibilmente con diversi orari ed organizzazioni interne.

In sostanza, nel caso della mobilità del lavoro pubblico, non si ha il solo effetto della novazione soggettiva del datore di lavoro, ma si determina necessariamente anche una sia pur parziale novazione della prestazione lavorativa, su aspetti obbligatoriamente da regolare con un contratto individuale di lavoro, nuovo e diverso da quello precedentemente vigente tra lavoratore pubblico ed ente di provenienza.

Esiste, allora, una differenza essenziale tra la cessione del contratto come disciplinata dal codice civile e la mobilità regolata dall’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 [6]: la continuità del rapporto di lavoro del dipendente è, sostanzialmente, limitata alla sola assenza di rinnovare il periodo di prova. Lo ha spiegato bene il parere della Funzione Pubblica, ufficio Uppa 25 maggio 2005, n. 214 [7], secondo il quale il patto di prova “è previsto soltanto nell’ipotesi di nuova assunzione a seguito di una procedura di reclutamento e non anche nel caso di passaggio per mobilità, che non realizza una nuova assunzione, ma si configura come cessione del contratto di lavoro da un’amministrazione all’altra, con continuità del rapporto”.

Come si nota, il parere della Funzione Pubblica (del resto più volte confermato da molti altri pareri e circolari) accede alla teoria secondo la quale la mobilità sarebbe qualcosa di “altro” rispetto ad una nuova assunzione.

Tuttavia, abbiamo visto poco sopra che, in realtà, la mobilità è certamente qualcosa di diverso anche dalla cessione di contratto, perché caratterizzata da profili particolari, quali il consenso del datore ceduto come condizione d’efficacia e, soprattutto, la parziale novazione oggettiva.

In effetti, il parere della Funzione Pubblica citato sopra, se è utile a chiarire che la continuità del rapporto di lavoro tutela il lavoratore, rendendo non necessario rinnovare il patto di prova, evidenzia la debolezza della configurazione della mobilità come cessione del contratto, proprio dove scrive che la mobilità è “cessione del contratto di lavoro da un’amministrazione all’altra”. Non è così, per la semplice ragione, vista sopra, che non è l’ente di provenienza ad assumere il ruolo di cedente, bensì il lavoratore, sicchè l’ente di provenienza è il contraente ceduto. Dunque, la cessione del contratto non avviene da un’amministrazione all’altra, ma dal lavoratore pubblico che va a rendere la sua prestazione lavorativa verso una nuova amministrazione.

Insomma, non è l’ente B che subentra all’ente A nel condurre col lavoratore C il medesimo, identico rapporto di lavoro (stessa sede, stesso orario, stessi mezzi di produzione); ma è il lavoratore C che lascia l’ente A e va a lavorare presso l’ente B, mantenendo profilo e mansione, ma con diversa sede ed organizzazione del lavoro: id est, effetto della mobilità è l’instaurazione di un rapporto lavorativo nuovo, sia sul piano soggettivo, sia, parzialmente, su quello oggettivo.

Sicchè, ridurre il fenomeno a pura e semplice cessione del contratto appare un modo incompleto di affrontare una fattispecie, connotata di specialità, come qualsiasi regolazione del lavoro pubblico non interamente lasciata alla disciplina del codice civile o delle leggi sul rapporto di lavoro in azienda.

Ma, se la mobilità volontaria, allora, non può considerarsi pienamente come effettiva cessione del contratto, come configurarla?

Il problema pare caratterizzato da un errore di fondo: considerare la mobilità come istituto diverso dalla “assunzione”.

Perché si tratta di un errore? La risposta appare piuttosto semplice. L’assunzione altro non è se non la costituzione di un rapporto di lavoro, fattispecie complessa, composta almeno di due parti: procedura selettiva e stipulazione del contratto (dalla quale scattano i rapporti obbligatori).

Ora, costituire un rapporto di lavoro, significa acquisire un lavoratore alle dipendenze del datore, inserirlo, cioè, nell’azienda, attribuirgli ruolo, compiti e mansioni e, simmetricamente, assumendo l’obbligazione di retribuirlo.

Che questo avvenga per effetto di una procedura concorsuale seguita da stipulazione ex novo di un contratto, oppure da una procedura selettiva di altra natura, seguita dalla stipulazione di un contratto per regolare alcuni punti della fattispecie, ha assolutamente poco rilievo. Nell’un caso e nell’altro, il datore acquisisce alle proprie dipendenze un lavoratore, che prima non c’era; In un verbo solo: lo assume.

Si rilegga meglio l’articolo 30, comma 1, primo periodo, del d.lgs 165/2001 [6]: “le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell’amministrazione di appartenenza”. Cosa vuol dire “coprire posti vacanti in organico” se non inserire ex novo personale che prima non ne faceva parte? E non è, questa operazione, null’altro se non un’assunzione?

La risposta non può che essere positiva. A ben vedere, la mobilità, allora, altro non è se non una particolare forma di reclutamento, volta a far sì che l’amministrazione assuma lavoratori già alle dipendenze di altre amministrazioni, allo scopo di non incrementare il numero dei dipendenti pubblici e la relativa spesa, con razionalizzazione della distribuzione del lavoro pubblico, risparmio di spesa nelle procedure selettive e oculata scelta di avvalersi di persone con esperienza già collaudata (ecco il perché dell’assenza del patto di prova).

A seguito del reclutamento effettuato invece che per concorso, mediante mobilità, occorre pur sempre stipulare il contratto di lavoro individuale tra lavoratore cedente ed ente cessionario, per regolare la diversa configurazione della prestazione lavorativa. Si deve, in proposito, ricordare che il contratto in generale, e dunque anche il contratto di lavoro, ai sensi dell’articolo 1231 del codice civile “è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale”. Dunque, un contratto di lavoro, anche al solo scopo di regolare i rapporti tra lavoratore cedente ed amministrazione cessionario, sarà necessario.

Ma, in realtà, la mobilità è solo il presupposto per la stipulazione di un vero e proprio contratto di lavoro che sia anche fonte costitutiva del rapporto di lavoro tra lavoratore cedente ed amministrazione cessionaria; si tratta, infatti, per essa, di una copertura di un posto vacante, dell’immissione di un nuovo lavoratore nella propria organizzazione, che richiede un titolo giuridico, rispetto al quale la sola cessione del contratto non è sufficiente, perché non vi è un mero subentro del datore al posto del precedente, ma, come più volte ricordato, una regolazione della prestazione sostanzialmente nuova.

Che la mobilità sia una forma di reclutamento del personale sfociante in una vera e propria assunzione, del resto, lo confermano disposizioni di diritto positivo.

In primo luogo, l’articolo 30, comma 2-bis, del d.lgs 165/2001, che considera espressamente la mobilità alla stregua di una procedura di reclutamento, alternativa a quella del concorso pubblico e, inoltre, quale condizione di legittimità delle assunzioni per concorso, attivabili solo se la preventiva procedura di mobilità non porti all’effetto voluto: la copertura del posto vacante, id est, assunzione.

In secondo luogo, la ancora più decisiva previsione dell’articolo 31, comma 26, lettera d), ai sensi del quale l’ente che abbia violato il patto di stabilità “non può procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto”.

Ora, la mobilità rientra a pieno titolo nel divieto di effettuare assunzioni, posto dalla norma, come indicato dalla giurisprudenza pacifica della Corte dei conti e in particolare dal parere della Sezione regionale di controllo per la Puglia 29 luglio 2014, n. 144: “Proprio con riferimento alla riconducibilità o meno della mobilità nell’ambito del divieto di cui all’art 31 comma 26 l. 183/2013, questa Sezione si è espressa con deliberazione n. 163/PAR/2013, ove si osserva: L’articolo 31, comma 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183, nel definire il sistema sanzionatorio per gli enti che non hanno conseguito il saldo obiettivo annuale, stabilisce – per quanto di interesse in questa sede – che non possono << procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con  qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto altresì divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della presente disposizione>> (……), Infatti, la precisazione che il divieto si estende ad assunzioni realizzate “a qualsiasi titolo” e “con qualsivoglia tipologia contrattuale” è un chiaro indice della voluntas legis volta a ricomprendere in esso ogni fattispecie che sia sostanzialmente configurabile come rapporto di lavoro a vantaggio dell’ente soggetto alle limitazioni, senza distinzione alcuna che possa basarsi su aspetti formali quali il “titolo” giuridico della costituzione o la “tipologia contrattuale” utilizzata (deliberazioni Sezione Veneto n. 6 e 37 /PAR/2010; deliberazione Sezione Lombardia n. 427/PAR/2009). In altri termini, il divieto posto dall’art. 31, comma 26 della L. 183/2011, a prescindere dall’esistenza di elementi che possano indurre a qualificare la fattispecie sotto il profilo formale in termini di nuova assunzione, ricomprende tutte le ipotesi in cui l’ente realizza un incremento delle prestazioni lavorative in suo favore con conseguente aumento delle relative spese. Conseguentemente, nelle ipotesi di mancato rispetto del patto di stabilità, il divieto di procedere ad “assunzioni di personale” non si esaurisce nel divieto di costituzione di nuovi rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione inadempiente ma <<va esteso al più generale divieto di incremento della spesa di personale conseguente all’utilizzo in concreto, a qualunque titolo, di altro lavoratore>> (deliberazione Sezione Lombardia n. 879/2010/PAR)”. Stante l’orientamento della giurisprudenza sopra richiamata e condiviso da questa Sezione, si deve concludere cheche il divieto di procedere a nuove assunzioni nell’esercizio successivo a quello a quello in cui si è avuta la violazione del patto ricomprende anche le assunzioni per mobilità tra enti dello stesso comparto”, oltre che tra enti appartenenti a comparti diversi (deliberazione n. 163/PAR/2013, nello stesso senso Sezione regionale Piemonte, deliberazione n. 1/PAR/2013 e Sezione Riunite per la Regione Siciliana deliberazione n. 89/PAR/2012 ove si osserva chela violazione del patto di stabilità nell’esercizio precedente costituisce un’ipotesi limite in presenza della quale, a tutela degli equilibri generali di finanza pubblica e dell’osservanza degli impegni assunti dal Paese in sede comunitaria, è previsto il blocco totale di assunzioni, che si estende espressamente anche alla mobilità esterna.”)”.

La Corte dei conti è molto chiara: la mobilità è, nella sostanza, un “titolo giuridico”, il veicolo col quale si costituisce pur sempre un rapporto di lavoro tra il dipendente cedente il contratto e l’amministrazione cessionaria.

La “continuità”, requisito particolare della cessione del contratto, opera anche nella speciale fattispecie della mobilità come tutela per il dipendente, che non perde, così, profilo, mansioni e trattamento economico fondamentale; ma, può perdere ogni elemento del salario accessorio, a conferma che non si tratta di una semplice novazione soggettiva come nel caso della cessione di contratto di lavoro connessa a cessione di ramo di azienda.

Conclusivamente, la mobilità ha qualche elemento in comune con la fattispecie della cessione del contratto, ma ne differisce sotto moltissimi aspetti, soprattutto perché nella realtà essa dà luogo ad una vera e propria assunzione, veicolata con lo speciale sistema di reclutamento previsto dal combinato disposto dei commi 1 e 2-bis, dell’articolo 30 del d.lgs 165/2001.

La mobilità prevista dal combinato disposto dell’articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), della legge 56/2014, invece, sarebbe stata una vera e propria mobilità da cessione del contratto, perché il trasferimento dei dipendenti delle province sarebbe avvenuto insieme col passaggio delle funzioni non fondamentali ed il complesso delle risorse strumentali, patrimoniali, finanziarie ed organizzative per gestirle. In sostanza, le citate disposizioni della legge Delrio avevano dettato una regolamentazione speciale di una vera e propria cessione di ramo di azienda dalle province agli enti che sarebbero subentrati loro nella gestione delle funzioni non fondamentali.

Questo quadro è stato totalmente modificato dalla legge 190/2014, che ha trasformato il processo in un ibrido tra mobilità volontaria e mobilità obbligatoria ex articolo 30, comma 2, del d.lgs 165/2001. Norma, questa, che al pari del comma 1, non dà vita ad un’ipotesi vera e propria di cessione del contratto, anche se inverte le parti: in questo caso, infatti, è il datore pubblico che, sulla base però di una convenzione con altra amministrazione o di un decreto del Governo (non dunque dell’accordo ex articolo 1406 del codice civile) cede il lavoratore (che assume il ruolo di contraente ceduto ed è obbligato ad accettare, non essendo nemmeno chiamato a prestare assenso al trasferimento) ad un’altra amministrazione. Ma, anche nel caso della mobilità “obbligatoria” si dà vita comunque ad un’assunzione vera e propria, veicolata con un particolare sistema di reclutamento, e non ad una cessione del contratto di lavoro pura e semplice; tanto è vero che il contraente ceduto, cioè il lavoratore, può essere chiamato a rendere la propria prestazione sì nel rispetto del proprio profilo ed inquadramento, ma rendendo mansioni ed attività totalmente diverse, visto che la mobilità disciplinata dall’articolo 30, comma 2, del d.lgs 165/2001 per sua natura può determinare trasferimenti intercompartimentali, verso amministrazioni di destinazione totalmente diverse da quelle di provenienza. Sicchè, la costituzione-regolazione del rapporto di lavoro, pur nella continuità delle tutele e garanzie del lavoratore ceduto, appare ancora più necessaria di quanto già non lo sia per l’ipotesi di mobilità volontaria di cui al comma 1 dell’articolo 30.

Luigi Oliveri

1 [8] Se ne riporta il testo:

In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma. Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 1676.