IN POCHE PAROLE…

Non considerare ai fini dell’inquadramento retributivo l’attività pregressa svolta  da un docente in una Università di altro Stato membro UE ,  se effettivamente “equivalente” a quella da esercitare in Italia, può rappresentare una restrizione ingiustificata alla libera circolazione e, quindi, porsi in contrasto con il diritto dell’Unione che non ammette ostacoli, neppure indiretti, alla libera circolazione dei lavoratori fra i diversi Stati membri.


Consiglio di Stato, Sez. VII, sentenza n. 168/2025 del 31.01.2025Pres. C. Contessa, Est. D. Di Carlo

«Il mancato riconoscimento, ai fini dell’inquadramento retributivo, dell’attività svolta dal ricorrente quale professore associato presso l’Università del Lussemburgo si ponga in contrasto con la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea assicurata dall’art. 45, § 1, T.F.U.E […], che verrebbe dissuaso ad abbandonare il proprio Stato di origine per svolgere la medesima attività lavorativa in un diverso Stato membro, qualora al suo rientro riceva un trattamento meno favorevole rispetto a chi abbia svolto tutta la sua carriera nel proprio Stato di origine».

«Va escluso che la disciplina nazionale contenuta nella legge 30 dicembre 2010, n. 240 […] violi il paragrafo 2, dell’art. 45, TFUE, ovvero l’art. 7, paragrafo 1, Regolamento (UE) n. 492/2011, non sussistendo alcuna discriminazione sulla base della nazionalità».

«Una volta accertato che sia stata esercitata, presso lo Stato d’origine, un’attività “equivalente” (e non, quindi, meramente “utile” nei sensi sopra precisati) a quella che il lavoratore esercita presso lo Stato ospitante, il fatto che l’integralità di tale esperienza professionale non venga presa in considerazione costituirebbe un ostacolo alla libera circolazione, e, come tale, può rendere meno attraente la libera circolazione dei lavoratori, in violazione dell’art. 45, paragrafo 1, TFUE».

«Non vi è ragione obiettiva per escludere la corrispondenza di qualifiche e il riconoscimento della carriera per il servizio prestato anteriormente alla nomina […], non andrebbe sottaciuta la disparità di trattamento che si perpetrerebbe rispetto alle procedure di “chiamata diretta” ai sensi dell’art. 1, comma 9, legge 230/2005 […]».

«Il diritto dell’Unione non potrebbe mai tollerare ostacoli ad una libertà, quale quella di circolazione dei lavoratori, riconosciuta dal diritto dei Trattati (art. 45, TFUE) e dal diritto derivato (Regolamento UE n. 492/2011)».

«Il diritto dell’Unione, infatti, garantisce unicamente che i lavoratori che esercitano un’attività sul territorio di uno Stato membro diverso dal loro Stato membro di origine siano assoggettati alle medesime condizioni previste dalla normativa nazionale dello Stato membro ospitante».

«Il prefato art. 8, legge n. 240/2010, non ha infatti abolito il riconoscimento dei servizi pregressi per i professori e ricercatori nominati secondo il regime previgente […]; trattasi di una clausola di salvaguardia per la conservazione dei diritti già facenti parte del patrimonio del docente».

«L’appello va respinto, e […] la normativa interna si presta ad essere interpretata in senso conforme al diritto comunitario, con il conseguente riconoscimento in favore del ricorrente, ai fini del corretto inquadramento retributivo, dei periodi lavorativi prestati all’estero, alla condizione […] che vi sia piena “equivalenza” tra le attività svolte e quelle che il docente sarà chiamato a svolgere sul territorio nazionale».


Il caso

Il contenzioso ruota attorno all’inquadramento stipendiale di un professore, reclutato da una Università italiana ai sensi dell’art. 18, co. 1, lett. b), della l. n. 240/2010 (c.d. Legge Gelmini), quale professore associato già titolare di posizione equivalente presso l’Università di altro Stato membro UE.

Il ricorrente, in particolare, aveva impugnato innanzi TAR il decreto del rettore, con cui era stato disposto il suo l’inquadramento  in una certa classe stipendiale inferiore, ignorando i diversi  anni di servizio prestati dallo stesso all’estero come Associate Professor. Il Giudice di prime cure aveva accolto il ricor0, riconoscendo la violazione dell’art. 45 TFUE.  La decisone del Giudice di prime cure veniva appellata dall’Università e dal MUR.

Il Consiglio di Stato  conferma l’impostazione del  TAR, respingendo l’appello.

La sentenza

La sentenza annotata rappresenta un intervento giurisprudenziale di rilievo nel contesto del diritto amministrativo universitario e del diritto dell’Unione europea, in particolare per quanto riguarda l’effettività del principio di libera circolazione dei lavoratori sancito dall’art. 45 TFUE e l’interpretazione conforme del diritto interno rispetto al diritto UE. Il Collegio afferma, in linea con la giurisprudenza della CGUE (v. C-703/17, Krah), che anche misure apparentemente neutre possono costituire un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, se disincentivano la mobilità transnazionale.

«Il diritto UE non garantisce il mantenimento delle condizioni economiche vigenti nello Stato d’origine, ma impone che l’esperienza professionale equivalente sia valorizzata nello Stato ospitante, onde evitare che il lavoratore sia penalizzato per aver lavorato in un altro Stato membro. In tal senso, il mancato riconoscimento integrale dell’esperienza maturata all’estero, se effettivamente equivalente, costituisce un ostacolo oggettivo, anche in assenza di una discriminazione soggettiva (per cittadinanza).

La sentenza ribadisce una distinzione fondamentale, già tracciata dalla CGUE, fra esperienza “equivalente”, da riconoscere integralmente ai fini retributivi ed esperienza “utile” che può non essere computata.

Il Collegio impone quindi all’Amministrazione un obbligo motivazionale rafforzato, dovendo qualificare espressamente, con motivazione puntuale, se l’esperienza del professore sia “equivalente” o “meramente utile”.

 Pur riconoscendo che la L. n. 240/2010 e il d.P.R. n. 232/2011 abbiano abolito l’istituto della “ricostruzione di carriera” per i nuovi assunti, il Giudice di appello valorizza il principio di continuità del servizio, richiamando  l’art. 79 del R.D. n. 1592/1933, tuttora in vigore, in quanto espressione di un principio generale dell’ordinamento universitario e sottolineando la possibilità di un’interpretazione conforme della normativa nazionale al diritto UE, senza necessità di disapplicazione.

Interessante è il passaggio in cui la sentenza affronta il tema della discriminazione alla rovescia (cioè a danno di lavoratori italiani che abbiano maturato la loro carriera in Italia). Il Collegio risolve la questione con il richiamo all’art. 53 della legge n. 234/2012, che impone parità di trattamento anche per i cittadini italiani rispetto ai benefici previsti per cittadini UE. L’eventuale svantaggio per i lavoratori nazionali deve essere risolto attraverso l’equiparazione al trattamento UE, non con il disconoscimento dei diritti di chi ha lavorato all’estero.

La pronuncia rappresenta un leading case sul riconoscimento dell’esperienza estera nei procedimenti di chiamata ordinaria (ex art. 18, l. n. 240/2010), non più solo nelle chiamate dirette (art. 1, comma 9, l. n. 230/2005).

Questa impostazione ha implicazioni organizzative e procedurali per gli  Atenei, che dovranno adottare criteri valutativi trasparenti per il riconoscimento dell’esperienza pregressa maturata all’estero, accompagnati da motivazioni dettagliate in caso di  diniego.

 Conclusioni

La decisione si pone nel solco delle più recenti aperture del Consiglio di Stato verso una lettura evolutiva e integrata del diritto amministrativo nazionale in chiave euro-unitaria.

La centralità del lavoratore europeo e l’imperativo di non ostacolare la mobilità transnazionale vengono qui riaffermati con chiarezza, coerenza e solidità argomentativa.

Questa sentenza segna dunque un passo significativo verso un diritto amministrativo universitario più armonizzato con il diritto dell’Unione, attento a garantire pari dignità e valorizzazione professionale a prescindere dal luogo in cui la carriera è stata maturata.

dott. Riccardo Renzi

 


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