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Sul ricorso ad agenzie investigative per stanare il dipendente infedele3 min read

Se   viene accertato il doppio lavoro del dipendente, non è punibile per danno erariale il presidente della società pubblica che ha dato mandato ad un’agenzia investigativa privata di indagare, dovendo piuttosto, la società richiedere al dipendente infedele il risarcimento di quanto dovuto per le attività investigative svolte da terzi.

Corte dei conti, sezione II giurisdizionale centrale d’appello, sentenza n. 71 del 22 gennaio 2016 [1], Presidente Imperiali, Relatore Silveri


A margine

Nella vicenda, l’ex Presidente di una società pubblica propone appello verso la sentenza n. 54-2009 [2] della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Trentino Alto Adige, che lo aveva condannato al risarcimento di euro 3.000,00 a favore della società, quale spesa sostenuta per aver conferito ad un’agenzia investigativa l’indagine sulle attività retribuite che un dipendente si sospettava svolgesse durante il periodo di congedo parentale.

Ciò, nella considerazione che non risultava esperita alcuna doverosa verifica sulla possibilità di ricorrere ad alternative comportanti minori oneri per la società pubblica.

Con l’appello, l’ex Presidente chiede di essere assolto per inesistenza di comportamenti pregiudizievoli nei confronti dell’ente ricordando che:

  • il dipendente soggetto a controllo è stato poi condannato dalla sezione giurisdizionale di Trento con sentenza n. 24 del 2010 senza – paradossalmente –  alcun obbligo di rifondere le spese sostenute per scoprire il comportamento infedele;
  • non esistendo servizi ispettivi interni alla società, il ricorso all’agenzia investigativa era stato suggerito dal consulente del lavoro in quanto i servizi ispettivi della previdenza sociale non potevano svolgere attività di “pedinamento”; peraltro, non erano noti i luoghi in cui presumibilmente il dipendente svolgeva attività lavorativa durante il congedo parentale;
  • la spesa poteva essere recuperata con addebito al dipendente infedele.

La Corte dei conti, II sezione centrale d’appello, afferma che i fatti conducono ad escludere la colpa grave del Presidente, dovendo piuttosto ritenersi che l’urgenza nel provvedere abbia indotto lo stesso ad utilizzare il mezzo che appariva attendibilmente più idoneo, anche per la prevedibile maggiore rapidità d’intervento, a disvelare il comportamento del dipendente sospettato di svolgere attività retribuita presso terzi.

In tal senso depone anche la circostanza che l’appellante ha assunto ogni iniziativa idonea a far gravare sull’impiegato la spesa sostenuta dalla società per portare alla luce la violazione degli obblighi di servizio. Infatti, nella causa promossa dal dipendente per contestare la legittimità della sanzione disciplinare comminatagli, la società aveva richiesto, quale risarcimento del danno, anche le spese sostenute per l’investigazione.

Pertanto, la conciliazione della controversia giudiziale con il dipendente decisa dal nuovo Presidente, ha interrotto il nesso di causalità, non solo, come ritenuto dai primi giudici, con riguardo alle spese di lite (non addebitate in primo grado all’odierno appellante) ma anche con riferimento all’intero danno contestatogli, ivi compresa la spesa sostenuta per il ricorso all’agenzia investigativa, non richiesta all’impiegato in sede di conciliazione.

Ciò premesso, il collegio accoglie l’appello affermando l’infondatezza della domanda risarcitoria introdotta dalla Procura territoriale per insussistenza di colpa grave e per mancanza del nesso di causalità tra la condotta e il danno.

Trattandosi di proscioglimento, gli onorari sostenuti dall’ex Presidente sono addebitati alla controparte.

 Simonetta Fabris