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I nodi della sentenza n. 50/2015 sulla legittimità costituzionale della “Riforma Delrio”13 min read

La Consulta si pronuncia per la costituzionalita’ della riforma degli enti c.d.di area vasta

Corte costituzionale, sentenza 50 del 24 marzo 2015 [1] – Pres. Criscuolo, Rel. Morelli

Il caso

Dopo l’entrata in vigore della legge 7 aprile 2014, n. 56 [2], di riforma degli enti di area vasta, le regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia, nel mese di giugno dello scorso anno 2014, promuovono quattro giudizi di legittimità costituzionale avverso ben 58 commi del primo dei due articoli di cui si compone la c.d. legge “Delrio” [2].

In sintesi, i ricorsi riguardano le disposizioni della legge n. 56 [2]:

– sull’istituzione e la disciplina delle città metropolitane;

– sulla ridefinizione dei confini territoriali e del perimetro delle competenze delle province in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione;

– sul procedimento di riallocazione delle funzioni “non fondamentali” delle province

– sulla disciplina delle unioni e delle fusioni di Comuni;

– sulla prevista predisposizione, da parte del Ministro per gli affari regionali, di «appositi programmi di attività», per accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma della legge Delrio e per l’attuazione di quanto previsto dall’art. 9 (oggi abrogato dalla L. n. 147/2013 [3]) del decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95 [4].

Il Governo resiste ai ricorsi contestando la fondatezza di ciascuna delle questioni sollevate dalle Regioni.

La Corte sottopone dunque al vaglio di costituzionalità i 58 commi censurati della legge Delrio [2].

La sentenza

1) L’istituzione e la disciplina delle città metropolitane (art. 1, co. 5, 6, 7, 8 , 9, 10, 11, 12, 18, 13, 14, 15, 17, 19, 21, 22, 25, 42 e 48)

La Corte costituzionale, nell’accogliere le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, sottolinea l’infondatezza di tutte le questioni sollevate. In particolare fa presente che la mancata espressa previsione dell’istituzione delle città metropolitane nell’ambito di materia riservato alla legislazione esclusiva dello Stato di cui all’art. 117 Cost. [5], non ne comporta l’automatica attribuzione alla rivendicata competenza regionale, in applicazione della c.d. clausola di residualità.

Se questa tesi fosse esatta porterebbe, infatti, per assurdo, alla conclusione che la singola regione sarebbe legittimata a fare ciò che lo Stato “non potrebbe fare” in un campo che non può verosimilmente considerarsi di competenza esclusiva regionale, qual’è appunto, quello che attiene alla costituzione della città metropolitana, che è ente di rilevanza nazionale (ma anche sovranazionale ai fini dell’accesso a specifici fondi comunitari).

Oltre a ciò, va considerato che le regioni non possiedono nemmeno le competenze che l’evocato art. 117 [5], secondo comma, lettera p), Cost., riserva in via esclusiva allo Stato, nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali».

E’ la stessa Costituzione, infatti, richiamando al proprio interno l’ente territoriale città metropolitana (art. 114 Cost. [5]) ad aver imposto alla Repubblica il dovere della sua concreta istituzione, mentre, per quanto attiene alla relativa disciplina, il nuovo ente non potrebbe avere una regolamentazione e una struttura diversificate da regione a regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali.

D’altro canto, le città metropolitane istituite dalla legge n. 56 del 2014 [2] sono destinate a subentrare integralmente alle omonime province, la cui istituzione è di competenza statale.

La legge n. 56 [2] non è, da ultimo, come sostenuto dalla regione Campania, una legge “provvedimento” ma è, al contrario, una legge a carattere innegabilmente generale che, nell’istituire le città metropolitane, contiene anche l’elenco di tutte le province in relazione alle quali è stata ritenuta opportuna la trasformazione in città metropolitane (delle dieci Città metropolitane otto, peraltro, sono già nell’esercizio delle loro funzioni e gli statuti di sei di queste sono già stati approvati entro il 31 dicembre 2014).

Con riferimento, poi, alla coincidenza tra il territorio della città metropolitana e quello della provincia omonima, la Corte ritiene infondato anche il supposto contrasto con l’art. 133, primo co., Cost. [5] in quanto, con la legge n. 56 [2], il legislatore ha inteso realizzare una significativa riforma della geografia istituzionale della Repubblica, in vista di una semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, senza arrivare alla soppressione di quelli previsti in Costituzione.

Questo intervento è stato necessariamente complesso e giustifica la mancata applicazione delle regole procedurali, contenute nell’art. 133 Cost., [5] che risultano riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire l’avvio dei nuovi enti in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale.

La legge n. 56 non manca, infatti, di prevedere espressamente l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe, ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla città metropolitana, il che “per implicito” comporta la facoltà di uscirne, da parte dei comuni della provincia omonima: in modo innovativo rispetto ai contenuti letterali della legge Delrio, la Consulta ammette dunque la fuoriuscita dei comuni dalla città metropolitana;

peraltro, la stessa norma dispone che sia sentita la regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una «intesa» tra la regione stessa e i comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) città metropolitana.

In merito poi alle censure sul c.d. “governo di secondo grado”, la Corte ritiene, conformemente alla sua pregressa giurisprudenza (sentenze nn. 96 del 1968, 274 del 2003 e 365 del 2007 e ordinanza n. 144 del 2009), che la natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost. [5], come costitutivi della Repubblica, ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost., [5] non implicano l’automatica indispensabilità che i relativi organi di governo siano direttamente eletti.

Da qui la constatazione che la materia «legislazione elettorale» delle città metropolitane non si riferisce esclusivamente ad un procedimento di elezione diretta, attesa tra l’altro la natura polisemantica dell’espressione usata dal Costituente, come tale riferibile ad entrambi i modelli di legislazione elettorale.

Non è parimenti accoglibile la denunciata incompatibilità della L. n. 56 [2] con la Carta europea dell’autonomia locale [6], nella parte in cui quest’ultima prevederebbe che almeno uno degli organi collegiali sia ad elezione popolare diretta.

Ferma restando, infatti, la natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta europea [6], è comunque decisivo il rilievo che l’espressione usata dalla norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected”, va intesa nel senso dell’esigenza di un’effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate, così non escludendo la possibilità di un’elezione indiretta, purché siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti.

La legge n. 56 [2], infatti, non manca di prevedere la sostituzione di coloro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto, quando venga meno il munus originario in qualità di consigliere comunale o sindaco dei comuni del territorio.

Per quanto attiene alla figura del sindaco metropolitano, individuato nel sindaco del comune capoluogo, la Consulta ammette che tale individuazione non è irragionevole in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale (attesi il particolare ruolo e l’importanza del comune capoluogo intorno a cui si aggrega la città metropolitana), né si tratta di una previsione irreversibile, restando demandato allo statuto di optare per l’elezione diretta.

Nemmeno l’articolazione territoriale del comune capoluogo in più comuni, come presupposto per l’elezione diretta del sindaco metropolitano, viola l’art. 133, Cost. [5]: non risultano, infatti, compresse le prerogative del legislatore regionale né eliminato il coinvolgimento delle popolazioni interessate.

In merito, ancora, ai dubbi espressi dalle regioni sulle ridotte competenze “propositive e consultive” affidate alla conferenza metropolitana, la Corte supera la censura rilevando che la conferenza può vedersi attribuite ulteriori competenze dallo statuto, il quale viene approvato dalla conferenza stessa che si configura, dunque, come organo decisore finale delle proprie competenze, fatte salve quelle riservate in via esclusiva al sindaco metropolitano.

Quanto al personale delle città metropolitane, cui la legge n. 56 [2] applica il trattamento vigente per il personale delle province, il quale, se trasferito, mantiene fino al prossimo contratto il trattamento in godimento, la Consulta sottolinea che tale previsione attiene alla sola prima fase del procedimento di riallocazione del personale a seguito del riordino delle funzioni attribuite, e nella misura in cui coinvolga la materia «diritto civile», nella quale ricade la disciplina dei contratti di lavoro, risponde comunque ad un titolo di competenza esclusiva dello Stato.

Parimenti, anche le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, ivi comprese le attribuzioni degli organi e l’articolazione delle loro competenze rientrano nella disciplina complessiva degli «organi di governo» di competenza legislativa statale.

E lo stesso vale quanto alle modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane, fatte rientrare tra i contenuti dello statuto.

Non contrasta con la Costituzione, da ultimo, nemmeno il previsto esercizio del potere statuale sostitutivo in caso di mancata approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015: detta disposizione trova, infatti, la sua giustificazione nell’esigenza di realizzare il principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale per l’attuazione del nuovo assetto ordinamentale.

2) Il nuovo modello ordinamentale delle province in attesa della loro soppressione mediante legge costituzionale (art. 1, co. 54, 55, 58, da 60 a 65, 56, 67, da 69 a 78, 79, 81, 83)

La Corte si esprime per l’infondatezza anche delle censure sollevate in merito alle province.

Per la riforma delle province non appare, in primo luogo, pertinente l’evocazione del parametro di cui all’art. 138 Cost. [5]: tale parametro va invero utilizzato nel solo caso di soppressione delle province e non anche in quello “di riordino” dell’ente medesimo.

Le censure rivolte al modello di governo di secondo grado poi vanno rigettate sulla base delle ragioni già esposte con riferimento alle città metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato ogni altro aspetto disciplinatorio di detto ente territoriale.

Quanto alla denunciata proroga dei commissariamenti in contrasto con gli artt. 1, 48, 5, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost. [5], secondo la Consulta non è esatto sostenere che questa sarebbe “sine die”. Ai sensi del dl n. 90/2014 [7], infatti, nelle Province già oggetto di commissariamento, il commissario, a partire dal 1° luglio 2014, decadeva, dando vita, pur nella coincidenza della persona fisica, ad un organo diverso che, privo dei poteri commissariali, era chiamato ad assicurare, a titolo gratuito, la gestione della fase transitoria solo «per l’ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti e indifferibili, fino all’insediamento del presidente della provincia eletto ai sensi dei commi da 58 a 78».

3) Il riordino delle funzioni ancora attribuite alle province e lo scorporo di quelle attribuite ad altri enti (art. 1, co. 89, 90, 91, 92, 95)

La Corte esamina le disposizioni denunciate dopo una ricognizione del quadro normativo all’interno del quale esse si collocano.

In particolare, il giudice costituzionale rileva che la legge n. 56 [2] disegna un dettagliato meccanismo di determinazione delle intere funzioni, all’esito del quale la provincia continuerà ad esistere quale ente territoriale “con funzioni di area vasta”, le quali vengono ridotte in funzioni qualificate “fondamentali” e in funzioni meramente eventuali.

Con riferimento al procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle province e allo scorporo di quelle a tale ente sottratte e riassegnate ad altri enti, la legge “Delrio” [2] prevedeva che, mediante accordo da sancire in Conferenza unificata, lo Stato e le regioni, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, individuassero in modo puntuale le funzioni da riorganizzare e le relative competenze.

All’accordo doveva seguire, come noto, un apposito Dpcm per stabilire i criteri generali per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni da trasferire, garantendo i rapporti di lavoro in corso.

Sul punto la Corte sottolinea l’importanza centrale, nel complesso procedimento di riordino, dell’accordo in Conferenza unificata, quale accordo-quadro demandato all’individuazione, in primo luogo, del concreto perimetro delle funzioni fondamentali e, di conseguenza, alla determinazione delle altre funzioni oggetto di possibile trasferimento.

Sulla base dello stesso, infatti, lo Stato e le regioni avrebbero dovuto emanare gli atti di propria competenza, nel rispetto del riparto delle competenze legislative previsto dalla Costituzione, in modo da ricomporre le funzioni amministrative organicamente, al livello di governo ritenuto adeguato.

Rispetto a quanto sopra, la Consulta non fa altro che prendere atto che tale complesso procedimento è culminato nell’accordo sancito [8] nella Conferenza unificata dell’11 settembre 2014 e nell’emissione del prescritto Dpcm [9] in data 26 settembre 2014.

Da qui la constatazione della cessata materia del contendere sia in virtù della definizione congiunta delle competenze in relazione al processo di riordino e della loro ripartizione tra Stato e regioni conformemente ai titoli di legittimazione stabiliti dalla Costituzione e alle linee direttrici della stessa legge n. 56 del 2014 [2], sia avuto riguardo al rispettato principio di leale collaborazione da parte dello Stato.

Analogamente non fondata è la questione che attiene alla previsione del potere sostitutivo dello Stato in caso di inerzia delle regioni rispetto all’attuazione del richiamato accordo: questo perchè il procedimento nel quale si inserisce tale potere sostitutivo trova la sua giustificazione nell’esigenza di garantire che le attività attualmente svolte dalle province siano mantenute in capo ai nuovi enti destinatari senza soluzione di continuità, nell’interesse dei cittadini e della comunità nazionale.

4) La disciplina delle unioni e delle fusioni di comuni (art. 1, co. 4, 22, 105, 106, 117, 124, 130, 133 e 149)

Anche per questo quarto gruppo di norme la Corte non ravvisa la dedotta violazione della competenza regionale con riguardo alle nuove disposizioni sulle Unioni di Comuni.

Le stesse, infatti, a mente della legge n. 56 [2], si risolvono in forme istituzionali di associazione tra comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza … in sostanza non costituiscono un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente comune, rientrando così nell’area di competenza statuale.

Ma vi è di più, in quanto queste previsioni introducono misure semplificatorie volte al contenimento della spesa pubblica (intervenendo sugli organi, sulla loro composizione, sulla gratuità degli incarichi e sul divieto di avvalersi di una segreteria comunale), oltre che al conseguimento di obiettivi di maggiore efficienza o migliore organizzazione delle funzioni comunali: per tale ragione, pertanto, le norme della L. n. 56 riflettono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, non suscettibili di violare le prerogative degli enti locali.

Allo stesso modo, la norma di cui al comma 130 sulla fusione di comuni non ha ad oggetto l’istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l’incorporazione in un comune esistente di un altro comune, e cioè una vicenda relativa, comunque, all’ente territoriale comune, e come tale, quindi, ricompresa nella competenza statale dell’ordinamento degli enti locali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost [5].

Insussistente, secondo la Consulta è anche la violazione ad opera della legge n. 56 [2] degli artt. 123 e 133 [5], secondo comma, Cost., in merito al predetto procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni. Sul punto, infatti, la legge “Delrio” demanda la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate proprio alle specifiche legislazioni regionali: in altre parole, dovranno essere le singole regioni ad adeguare le rispettive legislazioni, sul presupposto che le disposizioni, contenute nella legge n. 56 [2], non sono, di per sé, esaustive.

Ne deriva che la nuova disciplina sulle fusioni non scalfisce l’autonomia statutaria spettante in materia a ciascuna regione.

Da ultimo, la Corte si pronuncia su un’ultima peculiare questione di legittimità costituzionale sollevata dalla regione Campania con riguardo al comma 149, secondo cui “Al fine di procedere all’attuazione di quanto previsto dall’articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, nonché per accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma”, il Ministro per gli affari regionali predispone appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni.

La regione denuncia, in particolare, la sospetta violazione degli artt. 97, 117, 118, 123 e 136 Cost. [5], sul rilievo che, col richiamato comma 149, sarebbe stata prevista la “reviviscenza” dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 [4] (sulla razionalizzazione amministrativa, il divieto di istituzione e la soppressione di enti, agenzie e organismi), norma prima dichiarata parzialmente incostituzionale ad opera della sentenza n. 236 del 2013, poi abrogata dall’art. 1, comma 562, lettera a), della legge n. 147 del 2013 [3].

Malgrado tale rilievo, la Corte ritiene che anche tale questione non sia fondata posto che il comma 149 può essere agevolmente interpretato in senso conforme a Costituzione, considerando la finalità attuativa dell’abrogato art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 [4] come “inutiliter data”.

L’obiettivo, infatti, che la norma si pone non sorregge, di per sé, il contenuto della successiva disposizione che demanda al Ministro per gli affari regionali la predisposizione di appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni per assicurare il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla legge n. 56 [2] e la verifica dei risultati da questa ottenuti.

Stefania Fabris