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Sanzione disciplinare al militare per wazz-up diffamatorio inviato ad un collega4 min read

IN POCHE PAROLE….

Sanzionato il militare per  wazz-up denigratori del contesto del servizio: i messaggi minano il clima organizzativo e la serenità.


Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, sentenza 14 marzo 2022, n. 174 [1] – Pres. D’Alessio, Est. Serra


È legittima la sanzione disciplinare irrogata ad un militare che ha inviato un wazz-up denigratorio del contesto in cui svolge il proprio servizio.

La comunicazione wazz-up tra il ricorrente e il collega può essere utilizzata dall’amministrazione al fine di fondare la contestazione disciplinare, se resa nota all’Amministrazione.


A margine

Un Comandante della Guardia di Finanza ricorre contro il provvedimento che respinge il ricorso gerarchico da lui proposto avverso una sanzione disciplinare di rimprovero irrogatagli con la seguente motivazione “avviava una conversazione di messaggistica istantanea (whatsapp) con Ufficiale di grado inferiore dipendente dapprima di altro comando regionale e successivamente da altro reparto del Comando Regionale, inoltrando allo stesso una serie di messaggi contenenti commenti, valutazioni, suggerimenti lesivi del prestigio di Ufficiali di grado superiore; evocativi di una generale condizione di inaffidabilità del contesto di servizio cui l’interessato è stato destinato; tesi a minare il clima organizzativo e la serenità del personale preposto ai Reparti del Comando Regionale”.

Il ricorrente afferma la violazione dell’art. 15 della Cost. [2] sulla libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione posto che la conversazione per cui è stata irrogata la sanzione ha natura esclusivamente privata, svoltasi al di fuori di chat di lavoro o ufficiali, senza che peraltro sia dato sapere come tale conversazione privata sia venuta a conoscenza del Comando.

Pertanto, trattandosi di comunicazione svolta tramite messaggistica istantanea con un unico interlocutore e privata, essa gode delle garanzie di libertà e segretezza di cui all’art. 15 Cost. [2]: non può essere usata nel procedimento sanzionatorio e non può comunque avere finalità denigratorie nei confronti dei terzi.  Non può, in senso contrario e come fatto dall’Amministrazione, rilevare che l’interlocutore avrebbe la possibilità di diffondere il contenuto della conversazione.

La sentenza

Il giudice ricorda che la Corte di Cassazione ha affrontato l’ipotesi della natura antigiuridica o meno, quale diffamazione, della condotta costituita dall’aver reso opinioni in una chat da parte di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, al fine di valutare la sua rilevanza o meno quale giusta causa di licenziamento, che richiede l’antigiuridicità della condotta, nell’ambito di un rapporto di lavoro privato.

In primo luogo, l’orientamento prospettato dalla sentenza della Corte di Cassazione citata e posta a fondamento del ricorso appare invero minoritario nel panorama giurisprudenziale che si è occupato della possibile rilevanza della diffamazione, in quanto, come rilevato in senso critico da diversi autori, il reato di diffamazione (semplice) non presuppone affatto la divulgazione nell’ambiente sociale e, quindi, la pubblicità della comunicazione – requisito proprio della fattispecie aggravata – bensì la mera comunicazione che può essere privata e pure riservata.

L’orientamento citato, pur senza prendere posizione sul punto, si discosta dagli orientamenti della stessa Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che nelle varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mail denigratorie non ha mai considerato la natura ‘‘riservata’’ della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica (cfr. ex multis Cass., 20 settembre 2016, n. 18404; Cass., 9 febbraio 2017, n. 3484; Cass., 10 novembre 2017, n. 26682; proprio con riferimento all’applicativo whatsapp cfr. Cass., 6 settembre 2018, n. 21719).

Ancora, in senso critico, si è rilevato in dottrina che non sono pertinenti i principi di libertà e segretezza della corrispondenza, sanciti dall’art. 15 Cost. [2], che sì ne precludono agli estranei la cognizione e la rivelazione come previsto dagli artt. 616 e 617 c.p., ma non sono invocabili laddove il datore di lavoro abbia conosciuto il contenuto della comunicazione non in violazione delle predette norme, bensì per la rivelazione che il partecipante alla comunicazione ne abbia fatto.

Invero, per i partecipanti alla conversazione, non vige alcun divieto di rivelazione né di divulgazione, ferma restando, naturalmente, la responsabilità per l’eventuale diffamazione insita nella divulgazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 26 settembre 2014, n. 40022), poiché, analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, non può essere considerata contrastante con la normativa sui dati personali l´eventuale successiva presa di conoscenza della e-mail da parte di soggetti estranei al circuito di posta elettronica, quando il messaggio non sia stato indebitamente acquisito da questi ultimi, ma ad essi comunicato da parte di uno dei destinatari del messaggio stesso (cfr. Parere del Garante per la protezione dei dati personali, 12 luglio 1999 [3]).

Tale ultimo passaggio è pienamente aderente al caso che oggi occupa, in quanto risulta che sia stata la partecipante alla conversazione a renderne noto il contenuto all’amministrazione, sicché si appalesa anche di non primaria rilevanza la questione circa l’applicabilità o meno al caso di specie del dovere di comunicazione ai sensi dell’art. 748, comma 5 lettera b) del Testo Unico delle disposizioni regolamentari d.P.R. n. 90/2010 [4], relativo alle “Comunicazione dei militari”.

Peraltro, deve aggiungersi che, anche alla luce di quanto chiarito, una volta che l’amministrazione ha conosciuto il contenuto della conversazione, che è stato reso pubblico dall’altro interlocutore, non poteva non tenerne conto ai fini della valutazione, che le è propria, in merito alla rilevanza disciplinare delle affermazioni rese dal ricorrente.

Pertanto il ricorso è respinto.