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Sull’obbligo di astensione degli amministratori locali5 min read

Le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo.

Consiglio di Stato, Salerno, sez. II, sentenza 10 settembre 2020, n. 5423 [1], Presidente Taormina, Estensore Altavista

A margine

In seguito a specifica istanza della società concessionaria di aree di uso civico comunali per impianti relativi a stazione sciistica, un Consiglio comunale approva il mutamento di destinazione d’uso e la concessione di un ulteriore terreno gravato da uso civico pari per la realizzazione della sala macchine per l’impianto di innevamento e altri locali fissando un nuovo canone (ridotto).

Un gruppo di consiglieri comunali, quali utenti di usi civici del Comune, propone ricorso al Tar affermando la violazione dell’obbligo di astensione di cui all0 art. 78 D.Lgs. n.267/2000 [2], in quanto la delibera consiliare è stata approvata da soggetti che non avrebbero dovuto prendere parte alla decisione perché interessati alla questione e dunque obbligati ad astenersi; in particolare, un primo consigliere era dipendente della società beneficiaria della riduzione dei canoni di occupazione e titolare di un contratto di locazione con la stessa società, un secondo, conduttore di altro locale di proprietà della società e un terzo dipendente della stessa società.

Il Tar Abruzzo, sez. I, accoglie il ricorso relativo alla incompatibilità dei consiglieri rispetto alla società rinviando ad una nuova determinazione dell’Amministrazione comunale da effettuarsi in assenza dei profili di incompatibilità.

Il Comune si appella quindi al Consiglio di Stato affermando che agli amministratori comunali dovrebbe essere applicata solo la disciplina dell’art. 78 del Testo Unico Enti Locali [2] e quindi il giudice di primo grado avrebbe errato nel trarre un principio generale contenente un obbligo di astensione dall’art. 51 del codice di procedura civile [3] riferibile solo al giudice.

La sentenza

Il Consiglio di Stato respinge l’appello evidenziando che, in base al dato testuale delle disposizioni dell’art. 78 TUEL, [2] l’interpretazione degli appellanti non può essere condivisa, in quanto il primo comma dell’art. 78 si riferisce ad un principio generale di imparzialità da cui deriva l’obbligo di astensione, che deve pertanto ritenersi di carattere generale. Ciò è confermato dal secondo comma dell’art. 78 che impone l’astensione non solo dalla votazione ma anche dalla “discussione” di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.

Tale obbligo di astensione di carattere generale prescinde quindi da ogni valutazione sia dell’effettivo contributo causale alla delibera concretamente adottata nonché del concreto rapporto con l’interesse in questione.

Solo infatti per le delibere di carattere normativo o generale deve essere considerata la sussistenza di un interesse “immediato e diretto”, trattandosi appunto di atti a contenuto generale, mentre in delibere che abbiano ad oggetto situazioni concrete, come nel caso di specie, la disposizione di legge prescinde dalla valutazione di un carattere immediato e diretto dell’interesse.

Tale è anche l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, per cui “l’astensione del Consigliere comunale dalle deliberazioni assunte dall’organo collegiale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui, per ragioni di ordine obiettivo, egli non si trovi in posizioni di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale, con la precisazione che il concetto di “interesse” del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all’adozione di una delibera”.

Come emerge dal tenore letterale dell’art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 [2] e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia; la deroga divisata per gli atti generali e normativi, oltre a non essere assoluta (perché qualora si profili il concreto interesse personale si ripristina l’obbligo di astensione), è da considerarsi tassativa ed incapace quindi, di incidere sul perimetro della fattispecie ampliandolo internamente (Consiglio Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2970).

L’ obbligo di allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di garantire la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa, sorge per il solo fatto che l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, a nulla rilevando che lo specifico fine privato sia stato o meno realizzato e che si sia prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a. Il conflitto d’interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo “istituzionale” ed un altro di tipo personale.

Non rileva quindi che il consiglio abbia proceduto in modo imparziale ovvero senza condizionamenti, essendo l’obbligo di astensione per incompatibilità, espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione. Viene nella sostanza recepito nella norma in esame quel comune sentire che nei riguardi di coloro che amministrano la cosa pubblica si traduce nel detto secondo il quale essi non soltanto debbono essere ma anche apparire non in conflitto con l’oggetto della questione che sono chiamati a deliberare (Cons. Stato Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4806 [4]).

Di recente, inoltre, la Sezione, con un orientamento dal quale non si ritiene di potersi discostare, si è espressa nel senso che proprio l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., [3] rappresenta un corollario del principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo. (Consiglio di Stato, Sez. II, 9 marzo 2020, n. 1654 [5]).

Tale interpretazione dell’obbligo di astensione come principio di carattere generale comporta l’infondatezza dei motivi d’appello, in quanto i consiglieri non avrebbero dovuto partecipare neppure alla discussione sulla delibera, con conseguente irrilevanza altresì della prova di resistenza.

Neppure può rilevare la circostanza che avessero un rapporto di lavoro od un contratto di locazione con la società beneficiaria, rilevando in base alla disciplina normativa e alla sua interpretazione giurisprudenziale anche un conflitto di interessi meramente potenziale ed essendo comunque legittimo, in base alla giurisprudenza sopra richiamata e integralmente condivisa dal Collegio, il richiamo alla espressa previsione dell’art. 51 c.p.c. [3] che individua tra i presupposto per l’astensione i rapporti di credito e debito con le parti.

Pertanto l’appello è respinto.