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La disciplina urbanistica applicabile dopo l'annullamneto del diniego del permesso di costruire10 min read

In caso di annullamento, in sede giurisdizionale, del diniego di concessione edilizia, o di permesso di costruire o di silenzio rifiuto, non si applicano in sede di riesame, se ostative, le norme urbanistiche intervenute successivamente alla notifica della sentenza di accoglimento del ricorso.

Se, di contro, la nuova normativa è opponibile, il privato ha un interesse pretensivo tutelabile a che l’Amministrazione valuti la possibilità di introdurre variante che assecondi le aspettative di ripristino della normativa pregressa.

Consiglio di Stato, sez. IV, 18 febbraio 2013, n. 1007 – Pres. Giaccardi, Est. Castiglia

La sentenza del CdS [1]

Il caso.

Un privato aveva chiesto una concessione edilizia, sulla base della vigente normativa urbanistica. L’ amministrazione ha negato la concessione, ma questo diniego è stato successivamente annullato dal giudice amministrativo. La domanda veniva ripresentata, e più volte reiterata a causa dell’inerzia dell’Amministrazione a pronunciarsi. Nelle more, venivano adottate nuove norme, ostative al rilascio della concessione, con conseguente conclusivo provvedimento di rigetto. Adito il TAR, il ricorso veniva accolto sul rilievo che l’Amministrazione aveva disatteso il principio di effettività della tutela giurisdizionale di fronte agli organi della giustizia amministrativa.

Proposto appello dalla Amministrazione soccombente, il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza con l’enunciazione di alcuni principi dalla cui applicazione deriva una maggiore e pregnante efficacia della tutela giurisdizionale.

La sentenza.

I giudici di appello, confermando la sentenza di primo grado, richiamano e sviluppano i principi che l’Adunanza Plenaria aveva enunciato con la sentenza n. 1 dell’8 gennaio 1986 sulla questione relativa alla disciplina urbanistica da applicare in sede di riesame di un progetto edilizio conseguente all’annullamento del diniego espresso, o del silenzio rifiuto. I giudici ricordano che l’Adunanza Plenaria aveva rilevato che occorre tenere conto di due esigenze che appaiono contrapposte: l’effettività della tutela giurisdizionale, e l’esercizio del potere amministrativo non sindacabile quando, operando in un contesto di legittimità, persegua l’interesse generale.

 Il limite all’esercizio di questo potere si trova, nella sentenza richiamata, nella esigenza di salvaguardare l’interesse privato quando questo sia stato riconosciuto meritevole di tutela da una sentenza passata in giudicato. E’ appunto il caso di un illegittimo diniego di titolo abilitativo all’edificazione quando il supporto normativi urbanistico e edilizio, vigente al momento della notifica della sentenza, la consente, mentre di contro l’Amministrazione rinnova il diniego sul presupposto di una normativa ostativa sopravvenuta. Quando questa nuova normativa non possa essere disapplicata (1), la sentenza riconosce un interesse pretensivo in capo al privato a che l’Amministrazione valuti la possibilità di introdurre una variante allo strumento urbanistico che recuperi in tutto o in parte l’originaria previsione favorevole alla edificazione negata (quanto meno, con questa proposizione, l’autonomia dell’azione amministrativa viene fatta salva perché è pur sempre agli organi ad essa preposti che viene riconosciuto il potere  di decidere). Discrezionalità amministrativa che non deve finire in uno sconfinamento che, per i suoi connotati, supererebbe i limiti stessi della giurisdizione amministrativa se il conflitto dovesse approdarvi (2).

 Il commento.

La sentenza, omettendo di prendere in considerazione quanto era emerso in primo grado sulla natura dell’atto impugnato, se endoprocedimentale o definitivo, affronta le questioni di maggior rilievo. Occorreva individuare la normativa applicabile per il rilascio del titolo abilitativo quando questo interviene a distanza dalla domanda , e in presenza di una sentenza di annullamento del diniego tacito o espresso, e indicare quali strumenti possono essere attivati per soddisfare l’interesse del privato a edificare pur in presenza di norme ostative sopravvenute.

 Quanto alla prima delle due questioni, si ricorda il dibattito attorno alla sanabilità di abusi edilizi (condono o accertamento di conformità) quando una nuova normativa avrebbe consentito l’edificazione. Si parlava, e si parla tuttora, di sanatoria giurisprudenziale (3). Sul punto la sentenza, come sopra ricordato, richiama l’orientamento della Adunanza Plenaria, espresso con la sentenza n. 1 dell’8 gennaio 1986, ribadito con le ulteriori sentenze richiamate, con la quale si invoca l’esigenza di trovare un giusto equilibrio tra due principi di uguale valore: l’effettività della tutela giurisdizionale, e le esigenze sottese alla pianificazione territoriale con gli strumenti e le finalità proprie della discrezionalità amministrativa. In altre materie, anche con particolare rifermento a quella dei contratti pubblici presenta qualche analogia l’istituto del soccorso istruttorio (4)

La soluzione data è che quando si è in presenza di un giudicato è la normativa vigente in quel momento a trovare applicazione nell’esame della domanda di permesso di costruire, o di comunicazione della DIA/SCIA. Regola applicabile nel caso di determinazione degli oneri concessori, come ha rilevato il medesimo Consiglio di Stato con le sentenze del 4 settembre 2012 n. 4669 e 4670 della IV Sezione, secondo le quali gli oneri devono essere corrisposti secondo le tariffe vigenti al momento della dichiarazione (in caso di DIA), e non quelle introdotte in tempo successivo (5).

 La seconda delle questioni risolte è di particolare rilievo. Si afferma che quando non sia possibile applicare la normativa vigente al momento della notifica della sentenza che ha sancito la nullità del diniego, e che sia vincolante quella ostativa sopravvenuta, sorge in capo al privato un interesse pretensivo, tutelabile, alla adozione di una diversa e più favorevole strumentazione urbanistica che consenta il soddisfacimento di tale interesse.

 Con questa affermazione compare nel nostro ordinamento una felice sintesi fra l’azione amministrativa e la tutela giurisdizionale. Da tempo si sostiene che i principi ai quali deve informarsi l’attività amministrativa, come individuati all’articolo 1 della legge 240 del 1990 (efficacia, speditezza, tempestività, proporzionalità, economicità) assurgono anche a parametri di legittimità dell’azione medesima, la cui inosservanza lede gli interessi meritevoli di tutela giurisdizionale. In questo modo il giudice si rende partecipe esso stesso della conduzione legittima dell’attività amministrativa, come del resto il legislatore già ha sancito nella materia dei contratti pubblici con l’affidare al giudice amministrativo, per il mezzo degli articoli 121 e 122 del codice di rito, la sorte di un contratto in assenza di valido affidamento. Il potere così attribuito comporta  l’adozione di statuizioni che appartengono anche al merito quando la scelta deve tenere conto del bilanciamento degli interessi coinvolti. E’ un orientamento che con l’ordine del giudice mira a rendere più spedita e efficace l’azione amministrativa.

Trattasi di un orientamento che ha trovato recente applicazione in sede cautelare. Si citano a questo riguardo alcune ordinanze del TAR per la Lombardia. Con la numero 159 del 30 gennaio 2013, della I sezione, i giudici invitano l’Amministrazione, pendente il giudizio, a trovare una soluzione (ubicazione di un chiosco) che possa soddisfare gli interessi del privato e le esigenze di generale interesse. Con altra, della II sezione del medesimo TAR, la n. 336 dell’8 marzo 2013, viene invitata l’Amministrazione a dare contezza delle ragioni in base alle quali è stata ammessa deroga allo strumento urbanistico, contrastando l’indirizzo generale volto a non consentire l’integrazione della motivazione in corso di giudizio, se non con la rinnovazione dell’atto oggetto di impugnazione (con nuovo procedimento e eventuale apertura di nuovo contenzioso). Nell’un caso e nell’altro trova attuazione il principio, richiamato nella sentenza qui commentata, secondo cui il giudice amministrativo deve farsi carico della applicazione sostanziale della legge, nello spirito voluto dal legislatore del 1990 che vuole, come ricordato, oltre alla speditezza dell’azione amministrativa, l’economicità (intesa non solo sotto il profilo monetario, ma anche della semplificazione procedimentale).

Questo orientamento sta a significare che vi è giustizia sostanziale quando il giudice non si limita a sindacare la legittimità astratta di un atto o di un provvedimento, ma anche con l’individuare nello stesso processo, e senza la proliferazione di procedimenti e giudizi, con quali altri mezzi soddisfare l’interesse privato in un quadro di compatibilità con l’interesse generale.

 Mario Bassani

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1.- Sulla impossibilità di disapplicazione di propri atti o provvedimenti, Tar Lombardia – Milano, Sez. II, 4 dicembre 2012, n.2893; Tar Campania – Napoli, Sez. III, 01 marzo 2011, n. 1248; Tar Puglia – Bari, Sez. III, 30 settembre 2008, n. 2254

2.- Cass. SS. UU., 17 febbraio 2012, n. 2312.

3.- Sulla sanatoria giurisprudenziale appaiono opportune alcune note.  L’articolo 13 della L- 47/85, reintrodotto dall’art. 36 DPR 380/01, introduce il criterio della “doppia conformità”, in base al quale le opere eseguite in assenza di concessione possono essere sanate quando siano conformi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati sia al momento della realizzazione dell’opera, che al momento della presentazione della domanda.

Nonostante il dettato normativo richiamato, in giurisprudenza si è affermato un orientamento consolidato, per quanto minoritario, a favore della teoria della sanatoria giurisprudenziale. Questo istituto, è stato elaborato in via pretoria quando era in vigore la legge n. 10/77  (in mancanza di una regolamentazione legislativa della sanatoria degli interventi abusivi). In base ad esso si ritiene  possibile rilasciare la concessione in sanatoria per quelle opere che, seppur realizzate senza concessione o in difformità dalla medesima, siano comunque conformi alla normativa urbanistica nel momento in cui l’autorità amministrativa provvede sulla domanda di sanatoria.

La ratio sottesa a tale assunto, si fonda su un’interpretazione del tessuto normativo finalizzata a valorizzare il principio di buon andamento della P.A., che trova il proprio precipitato costituzionale nell’art. 97 della Carta.

Infatti – nell’ipotesi in cui un soggetto chieda il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria e l’Amministrazione accerti che il manufatto, seppur non conforme alla normativa urbanistica vigente al tempo della sua realizzazione, tuttavia sia rispettoso della regolamentazione vigente al momento della proposizione della domanda –  imporre per un unico intervento costruttivo, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, si porrebbe in contrasto col principio di proporzionalità.

In sostanza, numerose pronunce dei giudici amministrativi hanno ritenuto che si perverrebbe all’irragionevole risultato di far demolire un’opera, della quale, contemporaneamente, si dovrebbe concedere la costruzione. A conforto di questo approdo, tali sentenze hanno affermato che gli artt. 13 e 15 della l. n.47/1985, “sono disposizioni contro l’inerzia dell’Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l’autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria” (Cfr. Cons. St., Sez. VI, sent. 07 Maggio 2009, n. 2835).

Tra le altre pronunce a sostegno di questo orientamento si segnalano: Cons. St., Sez. VI, 06 Febbraio 2003, n. 592;  Cons. St., Sez. V, 21 Ottobre 2003, n.6498;  Cons. St., Sez. V, 28 Maggio 2004, n. 3431; Cons. St., Sez. V, 19 Aprile 2005, n. 1796; Cons. St., Sez. VI, 12 Novembre 2008, n. 5646. ). Per una applicazione rigorosa del criterio della doppia conformità: Cons. St., Sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6657.

 4.- L’istituto del soccorso istruttorio assume rilievo nell’ambito dell’art. 6 della 241/1990 che disciplina il procedimento amministrativo. L’istituto in esame, che la giurisprudenza più recente ha interpretato in un’ottica sostanzialistica, si ispira al fondamentale principio di adeguatezza e completezza dell’istruttoria procedimentale. In base a tale principio, la P.A. è obbligata ad accertare d’ufficio, per quanto le è possibile, la realtà dei fatti e la consistenza degli atti posti alla sua attenzione, con la conseguenza che a fronte di un adempimento del privato che assolve l’onere documentale parzialmente, è compito all’Amministrazione ogni ulteriore accertamento ritenuto necessario allo scopo (TAR Emilia Romagna – Parma, Sez. I, 22 Giugno 2010, n. 324; TAR Lazio – Roma, Sez. I, 19 marzo 2010, n. 4321). Nella materia dei contratti pubblici trova consacrazione normativa nell’art. 46 Codice dei Contratti Pubblici, il quale prevede che “le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a “completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati – ma solo nei limiti previsto dagli artt. da 38 a 45 del medesimo decreto”.

 5.- Decisioni di rilievo anche per la qualificazione della natura della DIA. Secondo queste sentenze si tratta di manifestazione di volontà non avente alcuna natura provvedimentale, neppure tacita, e senza alcuna efficacia differita (il termine assegnato all’Amministrazione è per il solo esercizio dell’attività di controllo). Si veda in proposito anche la sentenza del Consiglio di Stato, IV Sezione, 20 febbraio 2013, n. 1058 che sembra convalidare questo orientamento.