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Sulla gratuità o onerosità delle pubbliche funzioni e sulla natura dell’assegno vitalizio5 min read

La funzione pubblica non integra gli estremi della attività lavorativa e l’indennità di carica non ha natura di retribuzione.

L’assegno vitalizio mensile per i consiglieri regionali cessati dalla carica non ha natura previdenziale avendo funzione indennitaria a sollievo della sospensione della attività lavorativa e professionale svolta nel corso del mandato.

La competenza a conoscere le controversie che dovessero sorgere appartiene al giudice ordinario in quanto si verte in materia di tutela di diritti.

Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, sentenza 10 novembre 2015, n. 485 [1] – Pres. Zuballi, Est. Tagliasacchi.


Il caso.

Un gruppo di ex consiglieri regionali e di superstiti aventi titolo, in quanto beneficiari di assegno vitalizio mensile, che per la regione Friuli Venezia Giulia è regolato dalle leggi regionali n. 38/1995 e n. 13/2003, hanno impugnato avanti al giudice amministrativo gli atti con i quali l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale ha ridotto l’importo dell’assegno suddetto in applicazione della nuova legge regionale n. 2/2015.

La sentenza.

Il giudici, rilevando che l’indennità di carica, quale presupposto per la corresponsione dell’assegno vitalizio, non ha natura retributiva e quindi non ha natura previdenziale neppure l’assegno medesimo. Quanto alla giurisdizione i giudici, rilevando che gli atti impugnati non derivano da esercizio di potere discrezionale in quanto direttamente applicativi di norme di legge vincolanti, hanno declinato la loro competenza.

Il commento.

I giudici amministrativi tornano ancora ad occuparsi della natura dell’indennità di carica legata a funzioni elettive, dopo che già con una recente pronuncia è stata negata quella retributiva (1). La sentenza qui in esame giunge alle medesime conclusioni quali presupposto per negare la propria giurisdizione in una controversia avente per oggetto la riduzione del c.d. vitalizio a cui le parti ricorrenti intendevano attribuire natura previdenziale. I giudici l’hanno esclusa sulla base di una analisi delle norme che regolano questa materia. Pur avendo riguardo alla particolare normativa della Regione Friuli Venezia Giulia, a statuto speciale, vengono tratti argomenti che investono in via generale il problema della natura di quanto ha formato oggetto del giudizio. Innanzitutto, per gli aspetti attinenti alla giurisdizione, viene osservato che la riduzione del beneficio della quale i ricorrenti si dolgono deriva da applicazione di una norma di legge che non si presta a valutazioni di discrezionalità, e quindi al di fuori della competenza del giudice amministrativo neppure in via esclusiva. In secondo luogo, ed è quanto qui interessa, la natura previdenziale dell’assegno vitalizio deve ritenersi esclusa perché alla base di esso non vi è alcuna componente retributiva.

Sul punto si legge che l’assegno rientra “(…) nel più ampio novero dei benefici istituiti affinché sia data effettività al principio costituzionale di accessibilità all’elettorato passivo (…)”. Questo perché, ancora si legge, “(…) l’accesso alle cariche pubbliche non finisce per essere di fatto riservato ai benestanti in quanto l’abbandono – durante l’espletamento del mandato elettorale – dell’attività lavorativa o professionale sia compensato dalla percezione di una fonte di reddito alternativa, che tenga conto della perdita di guadagno, della perdita contributiva, della perdita di clientela, di modo che sia consentito anche a chi benestante non è di partecipare attivamente e a tempo pieno alla vita politica del Paese (…)”(2). Aspetti ancor maggiormente evidenziati più avanti quando si legge che se “(…) la funzione è quella di permettere anche ai non abbienti di esercitare l’elettorato passivo, deve escludersi che il vitalizio sia la retribuzione, ancorché differita, di una prestazione lavorativa, o ad essa assimilabile. La carica pubblica non integra gli estremi di una attività lavorativa, men che mai con vincolo di subordinazione o parasubordinazione, stante l’assenza di una relazione sinallagmatica (…)”.

Con questo viene autorevolmente chiarito, se pur ve ne era bisogno, che occorrerebbe eliminare dal lessico corrente il termine stipendio riferito all’indennità di carica di parlamentari, ministri, sindaci, presidenti, e quanti altri svolgono funzioni pubbliche (3).


Note.-

1.- TAR Piemonte, II, 2 maggio 2015, n. 746, in questa Rivista, 4 marzo 2015, con commento di M.Bassani.

2.- In un successivo commento alla sentenza in nota 1 (M. BASSANI, Sulla natura retributiva o meno  dell’indennità di carica di assessore comunale secondo i giudici amministrativi, in questa Rivista, 19 maggio 2015) si ricordava che il problema della gratuità o onerosità delle cariche elettive già si poneva nei tempi antichi. Narra Aristotele, nella sua Costituzione degli Ateniesi (in Papiro Londinensis, identificato da F.G. KENYON, cap. 131), che Pericle introdusse la remunerazione delle cariche pubbliche per consentire di accedervi non solo a Cimone, ricchissimo, ma anche a chi, come Pericle stesso, era meno dotato di beni di fortuna.

3.- Di queste questioni si discute ora con particolare fervore, come di altre che riempiono i massimari, come al tempo in cui in Francia si tentava di superare il vecchio ordinamento. Ricordava Tocqueville come veniva preparata la convocazione degli Stati Generali. Scriveva su cosa doveva decidere Luigi XVI: “(…) al cardinale De Brienne, suo primo ministro, venne, a tal proposito, un’idea singolare, ed egli fece prendere al suo padrone una decisione senza precedenti in tutta la storia. Considerò di sapere se il voto sarebbe stato universale o ristretto, l’assemblea numerosa o di poche persone, gli ordini separati o riuniti, eguali o no per diritti, come se fosse un problema di erudizione e, per conseguenza, un decreto del Consiglio diede l’incarico a tutti i corpi costituiti di svolgere ricerche sul modo in cui anticamente venivano tenuti gli Stati Generali, e su tutte le formalità che erano state osservate. Egli aggiunse: “Sua Maestà invita tutti i dotti e le altre persone istruite del suo regno, e in particolare coloro che compongono l’Accademia delle Iscrizioni e delle Belle Lettere a indirizzare al Guardasigilli tutti i ragguagli e le memorie su tale questione”. Era trattare la questione del Paese come una questione accademica e metterla a concorso. L’appello fu raccolto: subito tutti vollero dare il proprio parere e, poiché si era nel Paese più letterato d’Europa e in un’età in cui la letteratura rivestiva le passioni del tempo con i grevi abiti dell’erudizione, la Francia venne inondata di scritti. Tutti i poteri locali deliberarono su ciò che bisognava rispondere al Re, tutti i corpi particolari avanzarono reclami: tutte le classi pensarono ai loro interessi e cercarono di trovare nelle reliquie degli antichi Stati Generali la formazione che appariva loro più adatta a garantirli.”(A. DE TOCQUEVILLE, l’Antico regime e la Rivoluzione, a cura di C. VIVANTI, Torino, 1989, 366-367). Di lì a poco scoppiava la Rivoluzione francese.