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Ambito di operatività della legittima difesa putativa e dell’eccesso colposo nell’uso dei mezzi difensivi3 min read

Non è ravvisabile la legittima difesa, nemmeno in forma putativa ovvero di eccesso colposo, nella condotta di chi abbia agito al di fuori dei canoni della proporzione e della necessità di difesa, costitutivi della fattispecie scriminante di cui all’art.52 c.p. [1].

Cass.pen., sez.I, sentenza 24 giugno 2013 n.27595,  Pres. Siotto – est. Tardio [2]

Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa (art.52 co.1 c.p. [1]).

La condotta difensiva deve essere sostenuta, sul piano oggettivo, una situazione di pericolo – reale, oltre che attuale – di offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata.

Il mero convincimento soggettivo circa l’esistenza del pericolo o la necessità della difesa, che può eventualmente dare luogo alle diverse ipotesi dell’eccesso in legittima difesa o della legittima difesa putativa, deve a sua volta essere corroborato da indicatori che non configgano con i presupposti di cui al co.1 dell’art.52 c.p. [1].

La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale con la sola differenza che, nella prima, la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma è supposta dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti.

Tale errore – che ha efficacia esimente se è scusabile e comporta responsabilità di cui all’art.59, ult. co. c.p. quando sia determinato da colpa – deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sicché la legittima difesa putativa non può valutarsi alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d’animo dell’agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo, invece, essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato terrore.
Essa, pertanto, può configurarsi se e in quanto l’erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell’animo dell’agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo, persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l’azione della difesa venga a estrinsecarsi.

Alla luce di questi principi, nel caso in esame, correttamente la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza della legittima difesa putativa, osservando che la situazione in cui era venuto a trovarsi l’imputato era tale da non legittimare l’insorgere di un errore circa l’esistenza di una situazione di pericolo.

Parimenti va esclusa la configurabilità di un eccesso colposo in legittima difesa, che presupporrebbe un uso abnorme e inadeguato dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio-temporale, ferma restando l’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’art.55 c.p. [1], mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale certamente comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante (cfr. Cass.pen., sez. I, n.45425 del 25 ottobre 2005).

Nella vicenda all’esame dei giudici della Suprema Corte, oltre all’assenza dei presupposti di fatto della legittima difesa in precedenza illustrati, la sproporzione della reazione va ricondotta non ad una valutazione erronea, bensì ad una determinazione consapevole e volontaria, che determina il superamento doloso degli schemi della scriminante.

La scena del delitto e le emergenze probatorie dimostrano che l’imputato ha operato valutando correttamente la situazione e rappresentandosi la sproporzione tra le lesioni ricevute e certificate (ecchimosi al volto), e l’arma che aveva a disposizione.

La condotta volontaria dell’agente, tesa a realizzare il fine criminoso di vendicare le offese pervenute dal rivale alla sua persona e alla compagna, e attuata sparando a colluttazione già cessata, impedisce di riconoscere la sussistenza della legittima difesa sia reale che putativa.

La precedente azione aggressiva costituisce un mero “pretesto non causale” di azione delittuosa, ancorché insorta come reattiva, non più necessaria e non inevitabile, prima ancora che non proporzionata e inadeguata.