- Moltocomuni - https://www.moltocomuni.it -

Direttiva rimpatri e (dis)orientamenti applicativi11 min read

Il recepimento della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, recante “norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, avvenuto in Italia con d.lgs. 28 gennaio 2008 n.25, continua a risultare problematico in relazione all’impianto del vigente testo unico in materia di immigrazione.

Decreto legislativo 28 gennaio 2008, n.25 [1]

I principali contenuti della direttiva rimpatri

La direttiva cristallizza un bilanciamento tra il perseguimento dell’obiettivo di garantire il rimpatrio dell’immigrato irregolare e l’altrettanto doverosa tutela del suo diritto fondamentale alla libertà personale.

Salva la sussistenza di ragioni in senso contrario, il rimpatrio volontario dello straniero dovrà essere privilegiato rispetto al rimpatrio coattivo e dovrà essere attuato mediante la notifica all’interessato di una decisione di rimpatrio con cui gli si assegna un termine di regola compreso tra sette e trenta giorni per la partenza volontaria (art.7), salve le ipotesi eccezionali di sussistenza di un rischio di fuga dello straniero, nelle quali le autorità hanno la possibilità di concedere un termine inferiore o di non concedere alcun termine.

Soltanto laddove l’interessato non sia partito volontariamente nel termine concessogli, ovvero non sia stato concesso sin dall’inizio all’interessato alcun termine per l’esistenza di un rischio di fuga, o ancora sia sorto in pendenza di tale termine uno dei rischi che avrebbero legittimato la sua mancata concessione, lo Stato potrà procedere all’esecuzione coattiva della decisione di rimpatrio, eventualmente previa emanazione da parte dell’autorità amministrativa e giudiziaria di un ordine di allontanamento (art.8).

In tale ipotesi, qualora non sia possibile eseguire immediatamente l’allontanamento coattivo e non possano “essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive” (come l’obbligo di presentarsi periodicamente all’autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l’obbligo di dimorare in un determinato luogo), potrà essere disposto il trattenimento dello straniero, il quale dovrà avere “durata quanto più breve possibile” e dovrà essere mantenuto “solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio” (art.15).

L’effettiva necessità del trattenimento rispetto allo scopo di preparare il rimpatrio dovrà essere riesaminata ad intervalli ragionevoli su richiesta dello straniero o d’ufficio, dovendo comunque cessare allorché risulti che “non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1” (art.15 § 4).

Il trattenimento dovrà avvenire “di norma” negli appositi centri di permanenza temporanei, salvi casi eccezionali in cui è data facoltà allo Stato di trattenere gli immigrati in attesa di allontanamento in un istituto penitenziario, avendo in tal caso cura di assicurare che siano ivi tenuti separati dai detenuti ordinari (art.16 § 1).

Potrà avere la durata massima di sei mesi (art.15 § 5), prorogabili tuttavia sino al termine massimo complessivo di diciotto mesi complessivi “nei casi in cui, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l’operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo a causa: a) della mancata cooperazione da parte [dello straniero interessato], o b) dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi” (art.15 § 6).

Le norme della direttiva, qui sinteticamente riassunte, dovranno trovare applicazione in tutte le procedure di rimpatrio degli immigrati “irregolari”, restando salva soltanto la facoltà degli Stati di non applicarle in materia di respingimento alla frontiera (art.2 § 2 lett.a) nonché quando il rimpatrio sia disposto sub specie di “sanzione penale” o come “conseguenza di una sanzione penale”nonché nell’ambito di procedure di estradizione (art.2 § 2 lett. b).

I profili di incompatibilità della normativa italiana con la disciplina comunitaria

La disciplina delle espulsioni prevista dal Testo Unico in materia di immigrazioni è risultata incompatibile con la disciplina della direttiva sotto una pluralità di profili:
– il testo unico configura come regola l’accompagnamento coattivo alla frontiera (art.14 co.1 t.u.), mentre la direttiva dispone che la regola debba essere quella dell’emanazione e della successiva notificazione di una decisione di rimpatrio, che conceda di norma allo straniero un termine compreso tra i sette e i trenta giorni per la partenza volontaria;
– nel caso di impossibilità di eseguire l’accompagnamento coattivo, il t.u. imm. prevede che venga tout court disposto il trattenimento dello straniero presso un centro di identificazione ed espulsione (art.14 co.1), senza che siano previste nemmeno sulla carta misure coercitive meno lesive della libertà personale, secondo l’ottica gradualistica cui è invece informata la direttiva (che invece concepisce il ricorso al trattenimento come ultima ratio nell’ipotesi in cui risulti l’inefficacia di ogni altra pensabile misura per neutralizzare il pericolo che lo straniero si sottragga al rimpatrio).

Una particolare incompatibilità – che non pochi problemi aveva creato agli operatori di polizia – era sorta nel rapporto tra la direttiva rimpatri e le norme incriminatrici di cui all’art.14 co.5 ter e 5 quater t.u. Imm., che sanzionavano con la pena della reclusione lo straniero che, colpito dall’ordine di allontanamento del questore, non avesse lasciato il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni.

Tale questione concernente, l’arresto obbligatorio in flagranza dell’inottemperante all’ordine del questore, si è risolta con il d.l. n.89 del 2011 e la conseguente modifica dell’art.14 T.U..

Va evidenziato, in proposito, che il testo unico in materia di immigrazione, all’indomani delle modifiche introdotte con legge 15 luglio 2009 n.94, prevedeva in merito all’inadempienza dell’ordine di allontanamento dal territorio nazionale due distinte fattispecie, la prima costituente delitto e la seconda contravvenzione, entrambe punite con sanzione detentiva:
– per la violazione commessa da clandestini, delinquenti abituali o indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, la pena consisteva nella reclusione da 1 a 4 anni (5 anni in caso di recidiva);
– se, invece, lo straniero (irregolare) era stato espulso semplicemente per la scadenza, da più di 60 giorni, del permesso di soggiorno era previsto l’arresto da 6 mesi ad un anno (da 1 a 4 anni in caso di recidiva).

L’impatto della ‘direttiva rimpatri’ sulla richiamata disciplina e la disapplicazione – a fronte di essa – della normativa interna, pure in assenza di un concreta modifica legislativa, produceva differenziate situazioni astrattamente addebitabili sul piano disciplinare e/o penale al personale delle Forze di Polizia:
• dalla prospettiva di un’omissione in atti d’ufficio, per non aver dato corso ad un arresto obbligatorio in flagranza espressamente previsto dal testo unico sull’immigrazione,
• a quella di un arresto illegittimo, qualora non fossero state osservate le direttive “disapplicative” rese dalla locale Procura della Repubblica,
• fino all’inosservanza dei doveri d’ufficio “derivanti dall’applicazione degli artt.14 co.5 bis, ter e quater”, t.u. Imm., secondo l’orientamento confermato dalla Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.

Con la novella del 2011 è venuta meno la diversificazione tra delitto e contravvenzione ed è scomparsa la sanzione di natura detentiva, per cui “la violazione dell’ordine di cui al comma 5-bis è punita, salvo che sussista il giustificato motivo, con la multa da 10.000 a 20.000 euro, in caso di respingimento o espulsione disposta ai sensi dell’articolo 13, comma 4 o se lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all’articolo 14-ter, vi si sia sottratto. Si applica la multa da 6.000 a 15.000 euro se l’espulsione è stata disposta in base all’articolo 13 comma 5”.

Allo stesso modo la multa (nella fattispecie da 15.000 a 30.000 euro) ha sostituito la pena detentiva della reclusione da 1 a 5 anni prevista nei casi di condotte recidivanti (art.14, co.5-quater t.u. Imm.).

E’ invece rimasta invariata, almeno sul piano legislativo nazionale, la procedura da adottare nel caso del rintraccio della persona destinataria di un provvedimento di espulsione che abbia fatto rientro sul territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno.

Ai sensi dell’art.13 co.13 t.u. Imm., non modificato dal d.l. n.89 del 2011, ricorre l’arresto obbligatorio in flagranza e la pena prevista è la reclusione da 1 a 4 anni. Non sono intervenute modifiche legislative per questa ipotesi, verosimilmente in quanto ritenuta più grave di quella contemplata nell’art.14 t.u. Imm..

Permane formalmente l’obbligo dell’arresto in flagranza che usualmente culmina nella convalida con immediata liberazione dell’autore del fatto.

Diverso è, tuttavia, l’orientamento assunto dalla giurisprudenza di merito, secondo cui anche il delitto di illecito reingresso (art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998) non sarebbe più applicabile perché in contrasto con la direttiva 2008/115/CE.

“Il delitto di illecito reingresso di cui all’art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998 non sarebbe più applicabile perché in contrasto con la direttiva 2008/115/CE, valutata l’immediata efficacia della direttiva che prevede come modalità ordinaria di esecuzione del provvedimento espulsivo la partenza volontaria entro un termine non inferiore a sette giorni. Tale conclusione deve essere ritenuta valida anche in relazione ai provvedimenti di espulsione emanati prima del 24.12.2010” (Trib. Napoli, 18 febbraio 2011).

Si osserva che la sentenza della C.G.U.E. del 28 aprile 2011, El Dridi, nella quale è stata affermata l’illegittimità della fattispecie delittuosa di cui all’art.14 co.5 ter, “rileva anche in ordine al delitto di illecito reingresso nel territorio dello Stato di cui all’art.13 co.13, in quanto anche tale fattispecie comporta una violazione del principio dell’effetto utile, posto che la previsione di una pena detentiva a carico dello straniero che abbia fatto illegalmente ingresso in Italia in violazione di un divieto di reingresso costituisce un ostacolo al conseguimento dell’obiettivo dell’effettivo rimpatrio dello straniero irregolare, individuato come prioritario dalla direttiva 2008/115/CE”.

Inoltre, “l’incompatibilità del procedimento amministrativo interno di esecuzione del provvedimento di espulsione con il sistema delineato in sede comunitaria comporta la disapplicazione dell’atto amministrativo contenente il divieto di reingresso (anche se emesso prima del termine concesso agli Stati per l’attuazione della direttiva), con la conseguenza che l’imputato del reato di cui all’art.13 co.13 deve essere assolto perché il fatto non sussiste, essendo venuto a mancare un presupposto della condotta tipica” (Trib. Roma, 9 maggio 2011).

La Corte di Cassazione, sez.I, con sentenza n.12220 del 13 marzo 2012 (depositata il 2 aprile 2012) ha affrontato in parte la questione della compatibilità tra la direttiva rimpatri ed il delitto di cui all’art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998, stabilendo di dover disapplicare la normativa nazionale in contrasto con la direttiva comunitaria solo nel caso in cui l’illecito reingresso dello straniero già espulso sia intervenuto dopo la decorrenza del termine massimo di cinque anni fissato dall’art.11 par.2 della direttiva, con assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.

Argomentando a contrario, ove l’illecito reingresso sia avvenuto entro il quinquennio dalla precedente espulsione dovrebbe considerarsi pienamente integrata la fattispecie delittuosa di cui al menzionato art.13 co.13 t.u.Imm., con tutte le conseguenze procedurali a connotazione restrittiva.

Più di recente, per una fattispecie in cui il soggetto era espulso dopo il trattenimento alla frontiera direttamente con accompagnamento alla frontiera, in contrasto con la sequenza procedimentale prevista dalla ‘direttiva rimpatri’ e con la possibilità di prevedere il divieto di reingresso qualora non sia stato concesso il periodo per la partenza volontaria o non sia stato ottemperato l’obbligo di rimpatrio, è stato ribadito che i fatti di cui all’art.13 co.13 del testo unico in materia di immigrazione non sono più previsti dalla legge come reato “a seguito della sentenza El Dridi pronunciata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (…) Deve essere pertanto disapplicato il provvedimento amministrativo emesso in base alla disciplina dell’espulsione prevista nell’art. 13 TUI antecedente alla sentenza citata, in quanto, non tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti del singolo caso, non appare conforme a quanto previsto dall’art.13 co.14 TUI nella nuova formulazione” (Trib. Voghera, 17 luglio 2012).

Tribunale Voghera 17 luglio 2012 [2]

L’incertezza applicativa si traduce nella possibile adozione di provvedimenti sostanzialmente diversi per casi analoghi: ad un arresto non convalidato per una cittadina extracomunitaria già espulsa e rientrata sul territorio nazionale, colta in attività di prostituzione, può far da contrappunto la convalida di un arresto con misura cautelare dell’obbligo di dimora per altra cittadina extracomunitaria già in precedenza colta da espulsione giudiziale e con figlio minore al seguito.

Il differente approccio appena descritto si riscontra non soltanto nel rapporto tra organi inquirenti e giudicanti ma anche nella stessa fase procedimentale, con un effetto moltiplicatore dell’incertezza (mera denuncia a piede libero o arresto obbligatorio e in quest’ultima ipotesi convalida dell’arresto e applicazione della misura cautelare personale, mera convalida e immediata liberazione ovvero mancata convalida e illegittimità dell’arresto).

Ne derivano ‘prassi giudiziarie’ oscillanti tra l’applicazione sic et simpliciter del dettato normativo vigente e l’opzione garantistica suffragata dall’interpretazione della direttiva rimpatri.

Viene così a riproporsi quella difficoltà operativa che in termini pratici si traduce – per i casi di illecito reingresso entro il termine quinquennale di cui all’art.11 par.2 della direttiva rimpatri – nell’incertezza se procedere ai sensi dell’art.13 co.13 d.lgs. n.286 del 1998 con l’arresto in flagranza di reato ovvero, come suggerisce l’interpretazione disapplicativa seguita da numerose procure e dalla giurisprudenza di merito, con mera denuncia a piede libero.