E’ illegittimo sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi”.

Sono conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure “a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”

Corte costituzionale, sentenza 27 febbraio 2019, n. 24, Pres. Lattanzi; Red. Viganò 

C.Cost. sentenza n.24 del 2019, 

Nell’ultimo biennio si assiste ad una evidente contrapposizione tra indirizzi legislativi ed orientamenti giurisprudenziali in materia di sicurezza pubblica e misure di prevenzione.

Da un lato, le esigenze di sicurezza sottese ai decreti legge n.14 del 2017 (c.d. decreto Minniti) e n.113 del 2018 (c.d. decreto Salvini), rispettivamente convertiti dalle leggi n.48 del 2017 e n.132 del 2018, si connotano per una comune logica bipartisan, con analogie di approccio e di soluzioni che si sostanziano in un ampio ventaglio di strumenti offerti sul piano sanzionatorio e sul piano della prevenzione, quali:

  • fattispecie penali di nuovo conio (ad esempio, introduzione del reato di violazione del divieto di accesso del Questore);
  • ri-penalizzazione di fattispecie già depenalizzate (si pensi al blocco stradale attuato con determinate modalità o all’accattonaggio molesto, reintrodotto in forza dell’art.669 bis c.p.);
  • innalzamento dei limiti (e soprattutto dei minimi) edittali, come nel caso della durata minima del “daspo” urbano, che passa da sei a dodici mesi;
  • introduzione di nuove misure di prevenzione, quelle che la dottrina definisce “atipiche” ed in accezione che lascerebbe pensare a soluzioni residuali, ma che costituiscono ormai strumenti di quotidiano impiego, come i divieti di accesso alle manifestazioni sportive, gli ammonimenti (compresi quelli per cyberbullismo) ed da ultimo gli ordini di allontanamento e i divieti di accesso ex artt.10, 13 e 13 bis del d.l. n.14 del 2017
  • ampliamento del ventaglio operativo per le misure di prevenzione già esistenti, come nel caso dei c.d. “daspo” per finalità antiterrorismo o di tutela della sicurezza urbana, degli ordini di allontanamento operanti anche in corrispondenza dei “presidi sanitari” e delle “aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli”, dei divieti di accesso in locali pubblici e esercizi pubblici (art.13 bis), ecc.;
  • modifiche alla legislazione speciale (TU Imm., codice della strada, codice antimafia, ecc.);
  • tutela della sicurezza integrata e urbana anche attraverso il ricorso – ai sensi dell’art.10 ultimo comma del d.l. n.14 del 2017 – all’arresto in flagranza differito, già previsto per le manifestazioni sportive e costantemente oggetto di censure dottrinali e giurisprudenziali, nonostante la previsione della misura a tempo determinato, con scadenza fissata al 30 giugno 2020.

Sul versante giurisprudenziale sono venuti a consolidarsi, invece, sulla scia della sentenza del 23 febbraio 2017 della Corte Edu di Strasburgo (cd. sentenza De Tommaso), orientamenti che mettono in seria discussione la disciplina italiana delle misure di prevenzione personali: basti pensare, tra le altre, alle sentenze della Corte di Cassazione del 27 aprile 2017 (sentenza Paternò, SS.UU., dep. 5 settembre 2017) del 30 novembre 2017 (sentenza Gattuso, SS.UU. dep. 4 gennaio 2018) e del 9 aprile 2018 (sez.I, dep. 10 luglio 2018 n.31322), che da un lato stigmatizzano l’indeterminatezza delle prescrizioni delle misure di prevenzione (vivere onestamente, rispettare le leggi, non partecipare a pubbliche riunioni) e dall’altro richiamano ad uno stringente accertamento dell’attualità della pericolosità del proposto.

Sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione incombeva, peraltro, fino ad oggi, il giudizio della Corte Costituzionale, chiamata in causa dalla Corte di Cassazione con ordinanza dell’11 ottobre 2017 (dep. 26 ottobre 2017, n.49194), mentre era già stata messa seriamente in discussione la compatibilità stessa delle misure di prevenzione personali, applicabili ai soggetti cc.dd. pericolosi generici, con i princìpi dettati dalla Corte europea di giustizia (Cass. pen., sez.I, sentenza 19 aprile 2018 – dep. 3 ottobre 2018, n.43826).

La sentenza – Con la richiamata sentenza dello scorso 27 febbraio, la Corte costituzionale, condividendo la valutazione di eccessiva genericità dei potenziali destinatari della confisca di prevenzione e della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, già espressa nel 2017 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata pronuncia “De Tommaso contro Italia”, si è in particolare soffermata sull’espressione “traffici delittuosi, ritenendola non in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione delle suddette misure di prevenzione.

La censura di più evidente rilievo attiene alla violazione del principio di legalità, “che esige che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si fondi su di una legge che ne determini con precisione i presupposti di applicazione”. Invece, a giudizio della Consulta, la previsione di cui alla lettera a) dell’art.1 co.1 del d.lgs n.159 del 2011 è “affetta da radicale imprecisione” e priva di significato certo.

In particolare, si evidenzia che “convivono tutt’oggi due contrapposti indirizzi interpretativi, che definiscono in modo differente il concetto di «traffici delittuosi». “Da un lato, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione, n.11846 del 2018, fa riferimento a «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», ricomprendendovi anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili».

Dall’altro, e sempre a guisa d’esempio, la pronuncia della Corte di cassazione, n.53003 del 2017, si riferisce al commercio illecito di beni tanto materiali […] quanto immateriali […] o addirittura concernente esseri viventi (umani […] ed animali […]), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite […], ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento, osservando ulteriormente che nel senso comune della lingua italiana […] trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile, e infine, in ambito marinaresco, maneggiare, ma non può fondatamente estendersi al significato di delinquere con finalità di arricchimento”.

Simili genericissime (e tra loro tutt’altro che congruenti) definizioni di un termine geneticamente vago come quello di traffici delittuosi, non ulteriormente specificato dal legislatore, non appaiono in grado di selezionare, nemmeno con riferimento alla concretezza del caso esaminato dal giudice, i delitti la cui commissione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura (…) Né siffatte nozioni di traffici delittuosi, dichiaratamente non circoscritte a delitti produttivi di profitto, potrebbero mai legittimare dal punto di vista costituzionale misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, che si è visto costituire la ratio di tali misure. Pertanto, la descrizione normativa in questione, anche se considerata alla luce della giurisprudenza che ha tentato sinora di precisarne l’ambito applicativo, non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art.13 Cost., quanto, in riferimento all’art.117, comma primo, Cost., dall’art.2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; né quelle imposte dall’art.42 Cost. e, in riferimento all’art.117, comma primo, Cost., dall’art.1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca”.

Alla luce di tali considerazioni, quindi, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale

  • dell’art.4 co.1 lett.c) del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art.1, lettera a);
  • dell’articolo 16 del Decreto legislativo n.159/2011 (Codice antimafia), nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a);
  • dell’articolo 1 della Legge n.1423/1956 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 159/2011 (Codice antimafia), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1);
  • dell’articolo 19 della Legge n.152/1975 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 159/2011 (Codice antimafia), nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della Legge n. 575/1965 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della Legge n. 1423/1956.

La Corte ha invece ritenuto sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose. La fattispecie di cui all’art.1 lett.b) del d.lgs. n.159 del 2011, anche grazie all’attività ermeneutica esercitata dalla giurisprudenza di legittimità, consente ai consociati di prevedere in anticipo in quali casi essi potranno essere sottoposti ad una misura di prevenzione personale ovvero patrimoniale. Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito.

In un significativo passaggio della sentenza si legge che “la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito”.

Tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita.

Il pronunciamento in esame è destinato, indubbiamente, ad incidere sul sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali a carattere giurisdizionale (sorveglianza speciale di p.s., sequestro e confisca di prevenzione), determinando evidenti ricadute sul piano giuridico ed operativo, ma non sono da escludersi, tuttavia, eventuali ripercussioni anche sulle misure di prevenzione di competenza esclusiva del Questore (avviso orale e foglio di via obbligatorio), nonostante queste ultime siano rimaste formalmente estranee al vaglio di costituzionalità sopra descritto.


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