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Le norme per la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione10 min read

La legge 6 novembre 2012, n.190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.265, del 13 novembre 2012, introduce significative novità nella disciplina dei reati contro la P.A.

Legge 6 novembre 2012 n.190 [1]

Le modifiche al codice penale sono contenute nel comma 75, dell’art. 1, e riguardano complessivamente tredici articoli, con l’aggiunta di due nuove fattispecie autonome: l’art. 319 quater (induzione indebita a dare o promettere utilità) e l’art. 346 bis (traffico di influenze illecite).

Le altre modifiche connotate in termini penalmente rilevanti riguardano il riformulato art. 2635 c.c. in tema di corruzione tra privati, l’art. 308 c.p.p., ove è aggiunto il co. 2 bis e l’art. 133, co. 1 bis, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 e l’art. 12 sexies, del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 1992, n. 356.

Creazione di nuove fattispecie e modifica di quelle esistenti

La ‘riscrittura’ dell’art. 317, in tema di concussione, si sostanzia, oltre che nella variazione del minimo edittale, nel restringimento formale sia della categoria dei soggetti attivi (ora riferita esclusivamente al pubblico ufficiale e non più anche all’incaricato di un pubblico servizio), sia della fattispecie oggettiva, che viene ad essere calibrata sulla sola ipotesi della costrizione, mentre scompare in tale contesto – quale modalità alternativa di realizzazione del reato – ogni riferimento all’induzione  di fatto ricollocata all’interno di un’autonoma previsione di reato.

In tal senso, il nuovo art. 319 quater, rubricato “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, stabilisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni”.

La nuova fattispecie recupera tra i soggetti attivi del reato l’incaricato di pubblico servizio oltre al pubblico ufficiale e prevede la punibilità già in presenza della sola induzione, ancorché con un trattamento sanzionatorio più prossimo a quello delle fattispecie di corruzione e quindi di entità ridotta rispetto alla previsione di cui all’art. 317 c.p..

Viene così a definirsi una sorta di progressione tra le figure di reato, dalla corruzione all’induzione indebita, fino ad arrivare alla (più grave ipotesi di) concussione.

Potrebbe risultare problematico, tuttavia, inquadrare con precisione i confini della rimodulata condotta di induzione, più prossima alla corruzione per il trattamento sanzionatorio, ma comunque ancora riconducibile all’originario alveo della concussione per il riferimento, contenuto sia nell’art. 317 che nell’art. 319 quater, all’abuso della qualità o dei poteri.

Per il delitto di cui all’art. 319 quater è consentita la particolare ipotesi di confisca di cui all’art. 12 sexies del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 1992, n. 356.

Le modifiche all’art. 318 in tema di corruzione c.d. impropria riguardano la riformulazione della rubrica (‘corruzione per l’esercizio della funzione’ in luogo di ‘corruzione per un atto d’ufficio’) e la descrizione della condotta del “pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”.

Nel previgente enunciato si incriminavano distintamente il “pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa” (co. 1) e il pubblico ufficiale che “riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto” (co. 2).

Di fatto, oggi, a nulla rileva che il pubblico ufficiale per compiere un atto del suo ufficio abbia atteso o meno l’elargizione o ne abbia accettato la promessa: il reato – come conferma la soppressione del co. 2, dell’art. 318 c.p. – si incentra tout court sull’ottenimento (o sull’accettazione di promessa) di denaro o altra utilità, senza necessità di dimostrare che la prestazione sia effettivamente scaturita dalla promessa o dalla dazione dell’indebita mercede.

La corruzione c.d. propria di cui al successivo art. 319 c.p. continua, invece, ad incentrarsi sul sinallagma tra retribuzione o promessa di utilità e compimento dell’atto.

Sempre con riferimento alla corruzione impropria viene opportunamente evidenziato che “non è più richiesto, per effetto della contestuale modifica dell’art. 320 c.p., che l’incaricato di pubblico servizio (quale possibile autore proprio del reato accanto al pubblico ufficiale) rivesta la “qualità di pubblico impiegato”, “sì che il reato è d’ora in avanti integrabile anche da chi non possieda una tale specifica veste. In relazione a tale modifica la norma ha così esteso l’orizzonte applicativo della fattispecie incriminatrice, con tutte le note conseguenze in termini di successione di leggi penali che ciò comporta” (cfr. Novità legislative: L. 6 novembre 2012, n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”). Relazione n. III/11/2012, Corte di Cassazione, a cura di Gastone Andreazza e Luca Pistorelli).

Relazione Uff. Mass. C.Cass. [2]

Le modifiche all’art. 322 (istigazione alla corruzione) confermano che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio non deve essere necessariamente legato all’amministrazione da un rapporto di pubblico impiego.

Per dare compiuta attuazione alle convenzioni internazionali in materia di corruzione ratificate dall’Italia è stato introdotto all’art. 346 bis c.p. il reato di “traffico di influenze illecite” consistente nel fatto di “chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”.

La pena prevista è la reclusione da uno a tre anni, che si applica anche “a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale” (co. 2); mentre un aumento è previsto “se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio” (co. 3) ovvero se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie (co. 4). Se i fatti sono di particolare tenuità la pena è diminuita (co. 5).

La nuova fattispecie ha tratti in comune con l’ipotesi del millantato credito ma se ne differenzia in quanto la capacità ‘mediatoria’ del soggetto attivo si fonda su relazioni esistenti e non meramente vantate con il pubblico ufficiale: ciò permette di valutare sul piano della penale rilevanza anche le condotte prodromiche ai successivi accordi corruttivi, al momento non ancora attivati.

Con la modifica dell’art. 2365 C.C. viene rimodulata la fattispecie della corruzione tra privati. Ai sensi del nuovo dispositivo, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste. Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’art. 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58, e successive modificazioni. Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Rispetto alla previgente formulazione viene introdotta una clausola di salvezza ed è previsto al primo comma il minimo edittale di un anno. Nel quarto comma è stata inserita un’aggravante ad effetto speciale con raddoppio della pena per il caso in cui la società “danneggiata” sia quotata in Italia o in un altro Stato dell’UE ovvero i cui titoli siano diffusi tra il pubblico in misura rilevante.
Innovativo è il regime di procedibilità, che prima si fondava interamente sulla querela della persona offesa mentre ora obbliga ad un’attivazione d’ufficio qualora dal fatto derivi dal fatto derivi una “distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Aumento delle pene

Nell’ottica di “potenziare l’efficacia dissuasiva delle norme incriminatrici” vengono, invece, incrementati i minimi edittali dei reati di peculato di cui all’art. 314 c.p. (quattro anni in luogo dei precedenti tre), di concussione ex art. 317 c.p. (ove il minimo della pena passa da quattro a sei anni di reclusione, di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio di cui all’art. 319 c.p. (ove il minimo della pena aumenta da due a quattro anni e il massimo da cinque a otto anni) e di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p. (ove il minimo passa da tre a quattro anni e il massimo da otto a dieci anni).

E’ rimasta invece invariata la pena da sei a venti anni di reclusione prevista laddove dal fatto corruttivo derivi l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni.

L’innalzamento del minimo edittale comporta almeno due effetti immediati, in termini di prescrizione del reato e di applicabilità delle pene accessorie.

Sotto il primo profilo, per i reati commessi a decorrere dalla entrata in vigore della novella e laddove non siano contestate ipotesi di recidiva, la prescrizione passa a dodici anni e sei mesi in luogo dei precedenti dieci anni, compreso il prolungamento per il caso di interruzione.

Sul versante delle pene che conseguono di diritto alla sanzione principale l’effetto è quello di rendere più difficile la possibilità di fruire della (più mite) pena accessoria dell’interdizione temporanea (e non già perpetua) dai pubblici uffici.

Infatti, in presenza dei reati di peculato (art. 314), concussione (art. 317), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319) e corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter), l’interdizione temporanea (anziché perpetua) dai pubblici uffici è configurabile solo qualora, in virtù del riconoscimento di circostanze attenuanti, venga inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni (art. 317 bis c.p.), risultando altrimenti doverosa l’applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

L’incremento del massimo della pena consente, invece, un più agevole ricorso alle misure cautelari restrittive (come la custodia cautelare in carcere) oltre che l’arresto facoltativo in flagranza ai sensi dell’art. 381 c.p.p..

La corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) reca una più afflittiva forbice edittale (reclusione da uno a cinque anni anziché da sei mesi a tre anni).

Anche per il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323, co. 1, c.p., la pena, prima racchiusa tra un minimo di sei mesi ed un massimo di tre anni di reclusione, aumenta e viene ora ricompresa tra uno e quattro anni di reclusione.