La questione concernente la liceità o meno della coltivazione e della vendita della c.d. cannabis light continua ad oscillare tra orientamenti più o meno rigoristici della Suprema Corte, con inevitabili ricadute sulla giurisprudenza di merito.
Le più recenti pronunce di legittimità sembrano prima facie arginare ogni forzatura interpretativa della legislazione in materia, escludendo che la soglia percentuale dello 0,6% del principio attivo THC agisca quale limite esimente non solo per il coltivatore ma anche per il venditore delle infiorescenze separate dalle piante di canapa.

A tale proposito, la Suprema Corte si orienta a ritenere lecita, ai sensi della legge n.242 del 2016, la commercializzazione dei prodotti della coltivazione della canapa solo alla triplice condizione che:

– deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC;

– la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%;

– la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art.2 comma 2 della legge n.242 del 2016, fermo restando che, per la sussistenza del reato di cui all’art.73 comma 4 del D.P.R. n.309 del 1990 a carico del commerciante, occorre verificare l’idoneità della percentuale di THC a produrre un effetto drogante rilevabile.

Cass.pen. sez.III, Notizia di decisione 2-2018

Tuttavia, dalla lettura della sentenza della sesta sezione della Corte di Cassazione del 31 gennaio 2019 n.4920, parrebbe doversi evince che la legge n.242 del 2016 consente la coltivazione della cannabis sativa e di conseguenza la commercializzazione dei suoi prodotti (e, in particolare, delle infiorescenze) contenenti un principio attivo THC entro lo 0,6%: “al di sotto di questa percentuale di tetraidrocannabinolo la sostanza non determina effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti e non è soggetta alla disciplina del d.p.r. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.p.r.”.

Ne consegue che se il rivenditore di infiorescenze di cannabis provenienti dalle coltivazioni considerate dalla legge n.242 del 2016 è in grado di documentare la provenienza lecita della sostanza, il sequestro probatorio delle infiorescenze, al fine di effettuare successive analisi, può giustificarsi solo se emergono specifici elementi di valutazione che rendano ragionevole dubitare della veridicità dei dati offerti e lascino ipotizzare la sussistenza di un reato ex art.73, comma 4, d.p.r. 309 del 1990.

Cass.pen, Sez. VI, 31.1.2019 n.4920

Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte muove da una preliminare analisi del quadro normativo di riferimento, costituito, da un lato, dal D.P.R. n.309 del 1990, recante la disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope e le misure di repressione per le attività illecite (artt.72-86) e, dall’altro, dalla legge n.242 del 2016, che riguarda:

  • la disciplina della coltivazione e della trasformazione della canapa;
  • l’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati provenienti da filiere locali;
  • lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;
  • la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;
  • la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.

La coltivazione della canapa risulta consentita da entrambe le leggi, anche se l’art.26 del DPR n.309 del 1990 ne limita l’ambito alla mera produzione di fibre o ad altri usi industriali e settori produttivi che vanno dall’alimentazione alla cosmesi, dall’industria e artigianato al settore energetico e alle attività didattiche e di ricerca industriale.

Sul punto, la circolare del Ministero per le politiche agricole n.5059 del 22 maggio 2018 n.5059 ha così specificato le regole di coltivazione nell’ambito del florovivaismo:

  • la riproduzione di piante di canapa è consentita esclusivamente da seme certificato;
  • non è permessa la riproduzione per via agamica di materiale destinato alla produzione per poi essere venduto;
  • il vivaista deve conservare il cartellino della semente certificata e la relativa documentazione di acquisto per un periodo non inferiore a 12 mesi;
  • la vendita delle piante a scopo ornamentale è consentita senza autorizzazione;
  • le importazioni a fini commerciali di piante di canapa da altri paesi non rientrano nell’ambito di applicazione della legge e, in ogni caso, devono rispettare la normativa dell’Unione europea e nazionale vigente in materia.

circolare_canapa_florovivaismo

I giudici della Suprema Corte desumono l’insussistenza del reato di cui all’art.73 d.p.r. n.309 del 1990 dalla lettura dell’art.4 della legge n. 242 del 2016, che prevede un doppio limite di THC (0,2% e 0,6%): il superamento della percentuale del limite di THC dello 0,2% determina la perdita dei benefici economici, mentre il superamento della soglia dello 0,6% legittima l’autorità giudiziaria a disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa.

Ne consegue che sino alla misura dello 0,6% di THC, la coltivazione di canapa autorizzata è conforme alla legge.

“Il coltivatore non ha l’obbligo di comunicarne l’inizio alla Polizia giudiziaria, ma solo di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto e, se all’esito dei controlli, il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2% e entro il limite dello 0,6% non è prevista alcuna responsabilità per l’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni”.

Sebbene la legge n.242 del 2016 faccia riferimento alla produzione della canapa e non alla sua commercializzazione, il commercio dei prodotti dalla stessa derivanti e, in particolare, delle infiorescenze, rappresenta, a giudizio della Suprema Corte, un corollario logico-giuridico, ragion per cui dalla liceità della coltivazione della cannabis, prevista dalla legge n. 242 del 2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0,6%.

Su queste basi la Cassazione, non ravvisando il fumus delicti, ha annullato senza rinvio il sequestro che era stato disposto dal Riesame di Macerata nei confronti di un giovane di Civitanova Marche che aveva messo in vendita nella sua tabaccheria la cosiddetta “cannabis light“.

Il Tribunale di Macerata aveva – invece – convalidato il sequestro di circa 13 kg. di infiorescenze con principio attivo oscillante tra 0,2% e 0,6% e perciò idonee a provocare effetto drogante, mentre l’Autorità di P.S. aveva disposto la chiusura degli esercizi di vendita ex art.100 TULPS..

La sentenza in commento si pone in contrasto con altre pronunce della medesima Suprema Corte, tra le quali si segnalano:

Cass. pen., sez.VI, sentenza n.56737 del 27 novembre 2018, ove si legge che “la cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente sia per la previgente normativa che per l’attuale disciplina, costituita dall’art.14 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dall’art. 1, comma terzo, D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, in cui l’allegata tabella II prevede solo l’indicazione della Cannabis, comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione, e riferibile a tutti i preparati che la contengono, rendendo così superfluo l’inserimento del principio attivo Delta-9-THC. L’introduzione della legge 2 dicembre 2016 n.242 che, stabilendo la liceità della coltivazione della cannabis sativa per finalità espresse e tassative, non prevede nel proprio ambito di applicazione quello della commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle inflorescenze (marijuana) e della resina (hashish) e – pertanto – non si estende alle condotte di detenzione e cessione di tali derivati che continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal D.P.R. n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile”;

Cass. pen. sez.VI 27 novembre 2018 n.53172

Cass. pen., sentenza n.38868 del 24 agosto 2018, ove si specifica che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti costituisce reato, in quanto rientra tout court nell’ambito delle condotte di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, art.73 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope). “Ciò poiché i reati che puniscono le varie forme di detenzione di sostanze stupefacenti sono di pericolo astratto, sicché, laddove il fatto sia conforme alla fattispecie tipica, ricorre necessariamente l’astratta offensività della condotta”;

Cass. pen. sez.III 24 agosto 2018 n.38868

Cass. pen., sez.VI, sentenza n.52003 del 10 ottobre 2018, ove si specifica che l’esimente di cui al comma 5 dell’art.4 della legge n.242 del 2016, concernente la produzione di canapa sativa con un tasso percentuale superiore allo 0,2% ma inferiore allo 0,6%, si applica al solo coltivatore che abbia impiantato una coltivazione di canapa e solo qualora siano rispettati i predetti limiti percentuali. Di fatto, nessun dato di fatto testuale autorizza ad estendere tale esenzione di responsabilità a tutta la filiera di coloro che acquistano e rivendono al minuto le sostanze in argomento.

Anche sotto il profilo della valutazione dell’offensività della condotta si registrano posizioni affatto coincidenti.

Con la pronuncia del 31 gennaio 2019 n.4920 i giudici osservano che un reato ex art.73 d.P.R. n.309 del 1990 può configurarsi solo se si dimostra con certezza, che “il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, è di entità tale da potere concretamente produrre un effetto drogante”.

D’altro canto, per quanto attiene alla coltivazione, la Suprema Corte a Sezioni Unite, seppur in una sentenza non recentissima (S.U, n. 28605 del 24 aprile 2008), ha evidenziato la possibilità di verificare l’offensività in concreto della condotta che, nel caso della coltivazione, “non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”, ovvero allorquando la sostanza sia conforme al “tipo”, ma non abbia la qualità minima per svolgere la funzione di droga.

Se ne ricava che laddove vi sia l’idoneità delle piante rinvenute nell’abitazione dell’imputato a consentire di ricavare immediatamente da esse sostanze stupefacente o anche in caso di piante che non abbiano ancora completato il processo di maturazione ma comunque potenzialmente idonee in tal senso, vi è necessariamente l’offensività della coltivazione stessa.

Vi è offensività anche quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico.

La condotta di “coltivazione” non è mai sottratta al rilievo penale, in quanto l’art.75 comma 1 del DPR 309/1990 ricomprende nella figura dell’illecito amministrativo solo le condotte di “importazione, acquisto e detenzione” e non le altre condotte indicate dall’art.73 e cioè  “la produzione, la fabbricazione, la raffinazione, la messa in vendita e  la “coltivazione” delle sostanze stupefacenti”.

Cass.pen. S.U. n. 28605 del 24 aprile 2008

La giurisprudenza di merito sulla coltivazione e sulla vendita della cannabis sativa

I punti (più o meno) fermi della giurisprudenza di merito, possono essere così compendiati:

  • l’area di applicazione della legge n.242 del 2016 è estranea alla cessione pura e semplice dei derivati della canapa per fini voluttuari, non essendo prevista dalla citata legge la vendita delle infiorescenze per il consumo personale attraverso il fumo o altra analoga modalità di assunzione (“smoking”). Una conferma indiretta a tale assunto potrebbe essere individuata negli avvisi tendenti ad escludere l’uso personale delle infiorescenze presenti su confezioni e nei negozi e la loro diversa destinazione a fumose finalità di ricerca & sviluppo o uso tecnico. Ove l’uso umano delle infiorescenze contenenti THC nel richiamato limite percentuale rientrasse pienamente tra le attività promosse dalla legge n.242 del 2016, non sussisterebbe alcuna necessità di celare l’impiego delle miscele vegetali quale alternativa legale alla canapa stupefacente, richiamando in fase di vendita una o alcune delle diverse finalità espressamente sancite dall’art.2 della legge n.242 del 2016;
  • l’esimente prevista dal comma 5 dell’art.4 della legge n.242 del 2016 si rivolge esclusivamente all’agricoltore che abbia ottenuto (senza avervi contribuito causalmente) canapa sativa con un tasso percentuale superiore allo 0,2% ma inferiore allo 0,6%. Ove risultino rispettate le prescrizioni di cui alla legge medesima (contenuto complessivo di THC della coltivazione superiore allo 0,2% ma entro il limite dello 0,6%) l’esimente sussiste, ma a favore del solo coltivatore e non è estendibile al venditore delle infiorescenze. I rivenditori, i grossisti o i titolari dei negozi che pongono in vendita le infiorescenze delle predette piante per finalità di consumo personale (uso voluttuario o ricreazionale) hanno il potere e il dovere di misurare le concentrazioni di principio attivo di THC. Peraltro, stando al tenore dell’art.4 co.5 della legge n.242 del 2016, anche l’esimente specificamente prevista l’agricoltore verrebbe meno qualora il medesimo avesse determinato con un proprio contributo causale una produzione di canapa con un tenore superiore allo 0,2%;
  • le infiorescenze della canapa con tenore allo 0,5% rientrano, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, della letteratura scientifica e della tossicologia forense nella nozione di sostanze stupefacenti, in quanto idonee a generare l’azione stupefacente. Anche alla luce di una consolidata giurisprudenza di legittimità, i livelli minimi di principio attivo (nel caso di specie, di THC), compatibili con la natura di sostanza stupefacente, sono quelli idonei a mettere in pericolo la salute dell’assuntore (ossia il bene giuridico tutelato dalla legge) e verosimilmente idonei a determinare nello stesso, anche in termini modestissimi, lo stato psicoattivo (cfr. Cass. pen., SS.UU., sentenza n.28 del 2008; Cass. pen., sez.IV, sentenza n.21814 del 2010; Cass. pen., sez.III, sentenza n.40620 del 2013; Cass. pen., sez.IV, sentenza n.43184 del 20 settembre 2013: “l’offensività della condotta … non può essere esclusa ogniqualvolta i quantitativi prodotti risultino inferiori alla ‘dose media singola’, determinata dalle tabelle ministeriali, ma soltanto quando risultino privi della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, gli effetti psicotropi evocati dall’art.14 del d.P.R. n. 309 del 1990”; Cass. pen., sez.III n.23082 del 9 maggio 2013: “è configurabile il reato relativamente alla coltivazione n.43 piantine di cannabis – che all’atto dell’accertamento avevano un contenuto di sostanza ricavabile inferiore sia al valore di una dose singola che alla dose soglia”; Cass. pen., sez.IV, n.44136 del 27 ottobre 2015: “l’offensività in concreto della condotta può essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, l’effetto psicotropo”);
  • le iscrizioni poste sulle confezioni in vendita, sui siti e nei negozi, tendenti solo apparentemente ad evitare il misuso (o l’abuso) delle infiorescenze non possono escludere la responsabilità dell’acquirente. Se si considerano la strumentale esclusione delle infiorescenze dalla definizione di medicinali o prodotti alimentari o da combustione, il divieto di vendita ai minori di 18 anni, l’indicazione di non ingestione o di utilizzo per ‘combustione’ e la loro diversa qualificazione in prodotti “per ricerca & sviluppo o uso tecnico o da collezione” (aspetti sovente e strumentalmente evidenziati agli utenti sia dalle etichette applicate sulle confezioni in vendita che dagli stessi esercenti dei negozi con avvisi talvolta esposti nei punti vendita o sui siti on line), diventa difficile sostenere la carenza in capo ai negozianti del requisito soggettivo dell’illecito, ossia la consapevolezza di commettere un illecito penale o amministrativo, anche al di là dell’obiettivo reale di destinarle al consumo umano.

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