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Il mobbing: un mostro dai mille volti3 min read

L’attuale organizzazione produttiva del lavoro, sempre più basata su logiche di competitività e di profitto, che spesso mettono in secondo piano la persona umana e i suoi valori di dignità e libertà, ha accresciuto le pressioni sul lavoratore…

Il risultato è un ambiente di lavoro sempre più stressante, più incattivito rispetto a quello in cui lavoravano i nostri genitori e meno rispettoso delle persone: si richiede ai lavoratori una produttività elevata in una stretta logica di competitività, con pause ridotte al minimo, con orari di lavoro effettivi che spesso superano di fatto la durata ordinaria prevista.

La logica della produttività e della competitività spesso investe l’ambiente di lavoro, rendendolo stressante al di là dei normali limiti di tollerabilità. Ne derivano danni alla salute e oggi si stima che in Italia vi siano circa due milioni di lavoratori mobbizzati.

I danni alla salute sono certi, in base ai dati statistici e ai monitoraggi rilevati in varie sedi. Anzitutto, nel nostro ordinamento giuridico e nel sistema previdenziale il mobbing costituisce una malattia professionale “non tabellata”, nel senso che in base alle vigenti norme grava sul lavoratore l’onere di dimostrare che l’attività lavorativa svolta gli ha causato un danno e una patologia permanente, e non semplicemente temporanea, di natura neurologica.

 Il mobbing quale malattia professionale indennizzabile dall’Inail ha quale presupposto e requisito giuridico la “costrizione organizzativa”: scelte organizzative incongrue del datore di lavoro, in ordine alla attività lavorativa e alla organizzazione del lavoro, possono determinare la situazione di “costrittività organizzativa”, di disagio psicologico e un danno neurologico oggettivamente valutabile e misurabile, indennizzabile dall’Inail.

Il mobbing civilistico risarcibile richiede, invece, un ulteriore elemento di natura soggettiva: il disegno vessatorio del datore di lavoro, la cui prova ricade sul lavoratore e non è facile, atteso il normale potere direzionale e gestionale riconosciuto dalla legge al datore di lavoro.

Il mobbing viene definito verticale o orizzontale, a seconda che il comportamento aggressivo o mobbizzante venga posto in essere direttamente dal datore di lavoro, oppure da preposti o compagni di lavoro con la complicità o l’inerzia del datore di lavoro. Il mobbing civilistico in Italia non ha trovato fino ad oggi nessuna regolamentazione legislativa, per cui come tale non costituisce reato.

In Francia, come pure nei Paesi scandinavi, è invece previsto come reato (il reato di “assillo morale”) e comporta sotto il profilo civilistico e risarcitorio l’inversione dell’onere della prova, che è a carico del datore di lavoro quale prova liberatoria dalle responsabilità. In Italia sotto il profilo penale vengono avvicinate al mobbing altre figure di reati, tra cui principalmente il reato di “maltrattamenti” o quelli di “ingiurie” o “diffamazione”. Sotto il profilo civilistico e risarcitorio, il mobbing è parimenti in Italia una figura giuridica di totale creazione giurisprudenziale. La giurisprudenza anzitutto richiede la prova rigorosa, da parte del lavoratore, dei comportamenti mobbizzanti posti in essere direttamente o indirettamente dal datore di lavoro nell’ambito del disegno vessatorio e persecutorio.

Richiede inoltre la prova altrettanto rigorosa del danno neurologico e psichico, nonché del danno patrimoniale ed eventualmente esistenziale subito dal lavoratore e del suo nesso causale con l’attività lavorativa e con i comportamenti mobbizzanti subiti. Tali comportamenti persecutori devono essersi sviluppati in un tempo non inferiore almeno a 6 mesi, devono avere cioè una notevole durata temporale e non effimera per poter essere idonei ad incidere sulla psiche del lavoratore.

Tra i comportamenti mobbizzanti elaborati dalla giurisprudenza ricordiamo la marginalizzazione dall’attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto, la prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l’impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni concernenti l’ordinaria attività di lavoro, l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione ed aggiornamento professionale, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

 

Lucio Di Giorgio – avvocato