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Il rischio da esposizione professionale ad antiblastici7 min read

L’ospedale è una realtà complessa. Complesse sono le prestazioni erogate, l’imponenza delle strutture architettoniche, l’urbanizzazione e le vie di collegamento. Gran parte degli ospedali italiani è di costruzione antica e si tratta quindi di strutture difficilmente gestibili, con alti costi di manutenzione e conseguente difficoltà di adempimento alle normative d’igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro. Adottare una politica di promozione della salute e della sicurezza sul lavoro all’interno di una struttura ospedaliera è indispensabile sia per conformarsi a quanto previsto dalla legislazione sia, soprattutto, per migliorarne la competitività. Non è infatti sufficiente limitarsi a considerare un ospedale come un sistema gravitante attorno al paziente in quanto l’attenzione va posta su chi e su cosa compone questo sistema e ne permette il funzionamento: le procedure e le risorse.

Nell’Unione Europea, il 10% dei lavoratori è impiegato nel settore della sanità e della previdenza e tale categoria è esposta ad una gamma di rischi estremamente ampia. Possiamo trovare agenti fisici come rumore, vibrazioni e radiazioni ionizzanti, agenti biologici, la cui esposizione non è ovviabile vista la natura di tali attività ed una serie di rischi legati allo stress e all’aspetto ergonomico della mansione. Per ultimo, ma non per questo meno importante, l’attività all’interno di strutture ospedaliere prevede l’esposizione degli operatori sanitari ad una serie di sostanze quali disinfettanti, gas anestetici e farmaci chemioterapici antiblastici.

Per farmaci chemioterapici antiblastici si intende una classe eterogenea di farmaci che hanno lo scopo di inibire o combattere lo sviluppo di forme tumorali. Tali farmaci agiscono inibendo la crescita delle cellule tumorali attraverso l’induzione di alterazioni nel DNA delle cellule o interferendo durante le fasi di divisione cellulare. I farmaci antiblastici vengono generalmente classificati in gruppi che fanno riferimento al meccanismo di azione come per esempio gli antimetaboliti, che interferiscono con la sintesi di nuovo DNA oppure gli agenti alchilanti, che, come suggerisce il nome creano un alchilazione del DNA, con la formazione di ponti, cosiddetti “cross link”, impossibilitando la lettura del codice genetico.

Il loro impiego è notevolmente aumentato negli ultimi decenni e il trattamento dei pazienti oncologici rappresenta una condizione non facilmente ovviabile nell’attività sanitaria. Gli albori della chemioterapia moderna vanno ricercati nella Prima Guerra Mondiale quando il gas mostarda, oggi conosciuto come iprite, veniva utilizzato come arma chimica da parte della Germania. Gli effetti di questo gas furono ben presto evidenti e dopo la guerra numerosi studi dimostrarono che, oltre a produrre reazioni vescicanti a livello cutaneo, causava anche leucopenia. Fu così che nel corso degli anni quaranta si ebbe il passaggio da arma bellica a farmaco, utilizzato soprattutto nel trattamento della leucemia. Tuttavia, dopo circa un decennio di impiego, alcuni studi iniziarono a rilevare l’insorgenza di tumori secondari a seguito del trattamento con antiblastici, aprendo la strada ad innumerevoli studi e ricerche che conducono ai giorni nostri.

Una caratteristica intrinseca di queste sostanze è infatti la citotossicità che non permette loro di agire in modo selettivo unicamente sulle cellule tumorali, determinando un certo grado di mutagenicità e cancerogenicità a livello di quei tessuti con elevato indice mitotico quali midollo osseo, epiteli dei bulbi piliferi, mucose ed apparato riproduttore maschile e femminile. Per i pazienti in terapia antiblastica, l’aumentato rischio è una condizione necessaria e l’effetto indesiderato del farmaco è “accettabile” in virtù dello scopo terapeutico. Non è invece accettabile che il personale addetto alla preparazione, alla somministrazione e allo smaltimento di queste sostanze vi sia esposto nel quotidiano svolgimento della loro attività lavorativa, pertanto è opportuno focalizzare l’attenzione sull’esposizione professionale di medici, infermieri, farmacisti e operatori socio sanitari.

La normativa che regolamenta il settore delle sostanze e dei preparati pericolosi per la salute dell’uomo prevede che questi siano classificati ed etichettati in accordo con la Direttiva dell’Unione Europea 67/548. [1] Tuttavia, sono esclusi dal campo di applicazione i medicinali ad uso umano e veterinario, i prodotti cosmetici, le sostanze radioattive, pertanto risulta impossibile attribuire anche ai farmaci chemioterapici antiblastici la menzione H350 (Può provocare il cancro) e H351 (sospetto di provocare il cancro).

Nonostante la normativa in materia di farmaci antiblastici sia controversa è comunque possibile ottenere informazioni riguardo alla loro regolamentazione. La IARC, per esempio, ha classificato la cancerogenicità dei chemioterapici antiblastici in relazione al rischio di sviluppare tumori secondari, non correlati con la patologia primitiva, nei pazienti in terapia antiblastica.

 A livello italiano le tappe più importanti possono essere ricondotte Documento di linee guida pubblicate nel 1999, alle indicazioni pubblicate dall’ISPESL nel 2010 ed infine al D.Lgs 81/08 il quale va ad approfondire la necessità di dotare gli ambienti di una strumentazione adeguata, all’obbligo di dispositivi di protezione collettiva ed individuale e alla necessità di una formazione, informazione e addestramento specifico degli addetti.

I farmaci chemioterapici antiblastici vengono dispersi nell’ambiente di lavoro generalmente allo stato liquido in forma aerodispersa. L’assorbimento di tali sostanze avviene essenzialmente per via inalatoria o per via cutanea, qualora si verifichi un contatto diretto con il farmaco oppure con superfici o indumenti contaminati.

La manipolazione in sicurezza dei farmaci chemioterapici antiblastici si realizza attraverso un approccio integrato fra vari aspetti. Oltre all’utilizzo di DPI, all’adozione di procedure adeguate e ai programmi di formazione e sorveglianza sanitaria, è di fondamentale importanza l’aspetto organizzativo e gestionale. E’ in quest’ottica che risulta essere essenziale la centralizzazione delle attività di preparazione e somministrazione, secondo quanto indicato dal Documento di Linea Guida ISPESL, risalente al maggio 2010. Infatti, l’U.F.A. (Unità Farmaci Antiblastici) deve rispondere ad una serie di requisiti in quanto deve essere centralizzata, chiusa, isolata, protetta e segnalata. Inoltre il locale di preparazione deve essere sufficientemente ampio e deve essere dotato di una zona filtro in ingresso ed in depressione rispetto all’esterno. Al suo interno, le pareti e la pavimentazione devono essere facilmente lavabili e tutte le operazioni di preparazione devono avvenire sotto cappa a flusso laminare verticale con filtro HEPA.

Ovviamente la strutturazione fisica del locale e l’utilizzo di un cappa non sono di per sé sufficienti a ridurre l’esposizione professionale ad antiblastici. Agli operatori addetti dovranno infatti essere forniti una serie di Dispositivi di Protezione Individuale come guanti in nitrile, camice monouso, copricapo e sovrascarpe e, nel caso in cui le lavorazioni avvengano all’interno di un ambiente con insufficiente ricambio d’aria o in presenza di una cappa non funzionante, è necessario utilizzare un facciale filtrante FFP3, conforme alla norma EN 149.

L’adozione di corrette procedure di lavoro e di dispositivi di protezione collettiva ed individuale, deve essere necessariamente abbinata a campagne di monitoraggio dell’esposizione professionale che vadano a verificare l’efficacia di questi sistemi e delle procedure. Pertanto, seguendo la scala di priorità stabilita dal “Documento di linee guida per la sicurezza e la salute dei lavoratori esposti a chemioterapici antiblastici in ambiente sanitario”, sono previste misure per stabilire la contaminazione delle superfici, misure su materiale biologico ed infine misure in atmosfera.

Sicuramente l’adozione di corrette procedure di lavoro, il rispetto delle norme igieniche e campagne di monitoraggio sono un valido strumento per controllare e contenere l’esposizione professionale a farmaci chemioterapici antiblastici. Tuttavia, l’esperienza insegna che è impossibile giungere ad una condizione lavorativa con rischio di esposizione pari a zero. L’adozione di Dispositivi di Protezione Collettiva ed Individuale ha portato ad una riduzione notevole dell’esposizione ad antiblastici, tuttavia, dal punto di vista preventivo un punto cruciale è e sarà sempre la formazione dell’operatore. Formazione che non dovrà limitarsi ad un mero nozionismo ma dovrà essere continua, ed accompagnare il lavoratore nel suo percorso di crescita, perché è proprio la formazione continua che mantiene alto il livello di percezione individuale del rischio. È sempre in prima linea le necessità di formare operatori sanitari competenti, non solo dal punto di vista scientifico in relazione all’attività che svolgono, bensì su tutti i piani, consapevoli della realtà in cui operano, dei rischi che essa comporta aldilà della percezione individuale e aldilà di quella che è l’abitudine routinaria legata alla mansione, abitudine che spesso fa loro credere di essere invulnerabili.

dottoressa Giulia Mattanza