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Affidamento in house e controllo analogo diffuso5 min read

Nel caso di affidamento in house, conseguente all’istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata … il requisito del controllo analogo deve essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente

Consiglio di stato, sezione quinta,sentenza n. 3554 del 18 maggio 2017 [1]presidente Saltelli, relatore Perotti

A margine

Nel 2012, mediante affidamento diretto in house, un comune assegna il servizio di igiene urbana ad una propria società partecipata per lo 0,1% per un periodo di 15 anni.

Altra società concorrente deduce la mancata ricorrenza, nel caso di specie, dei presupposti dell’in house providing, facendo difetto, in particolare, del requisito del controllo analogo nei rapporti tra il gestore e il comune in virtù:

– dell’esiguità della partecipazione societaria (appena lo 0,1% del capitale);

– dell’assenza di strumenti amministrativo-societari in grado di proiettare sulla società partecipata una qualche influenza da parte del comune;

– dell’obiettiva impossibilità, da parte degli enti locali soci, di esercitare un controllo di tipo congiunto.

Ad avviso della appellante, l’in house providing rappresenterebbe un’eccezione, ragion per cui la sua ammissibilità andrebbe circoscritta ai casi tassativamente indicati dal legislatore e dalla giurisprudenza.

Sul punto, il Consiglio di Stato ricorda, che con propria precedente sentenza n. 762/2013 [2], è stato sottolineato che “stante l’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 d.l. n. 238/2011 […] è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”; ancora, con l’art. 34 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori limitazioni all’affidamento in house, contenute nell’art. 4, comma 8 del predetto d.l. n. 238 del 2011.

Questa impostazione ha trovato conferma anche nella successiva sentenza n. 257/2015 [3], con cui i giudici di palazzo Spada hanno non solo ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house, ma hanno pure rilevato come la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugga al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta.

A questo va ad aggiungersi la chiara dizione del quinto Considerando della direttiva 2014/24/UE [4], laddove si ricorda che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.

Nel caso oggetto del ricorso, la motivazione della scelta del modello in house risulta fornita a mezzo della relazione, redatta ai sensi dell’art. 34, comma 20, del d.l. 179/2012 [5], allegata alla deliberazione consiliare di affidamento del servizio.

Rispetto, poi, alla natura giuridica della società aggiudicataria, il giudice sottolinea che la stessa è una società a capitale interamente pubblico costituita tra enti locali, ai sensi dell’art. 113 del d.lgs n. 267/2000 [6], il cui statuto da un lato non vieta la partecipazione a procedure di affidamento di servizi da parte di enti non soci, dall’altro, non ammette l’ingresso di capitale privato.

Sempre lo statuto prevede una disposizione che consente ai singoli soci di vigilare sull’andamento della società, limitatamente al territorio di competenza: ciascun comune può quindi esercitare un controllo diretto nel proprio territorio, mentre tutti i comuni soci lo esercitano congiuntamente tramite l’ATO, vigilando sul corretto adempimento degli obblighi previsti dal contratto di servizio.

E’ altresì previsto un meccanismo di vigilanza da parte di una minima quota azionaria, consistente nella possibilità di censurare, fino alla revoca degli amministratori, le attività sociali poste in difformità dalle autorizzazioni assembleari concesse al consiglio di amministrazione, tra cui l’assunzione di nuovi servizi.

Da ultimo, è stabilito che la nomina del consiglio di amministrazione avvenga esclusivamente da parte degli enti locali, sulla base di un complesso meccanismo di liste finalizzato a ricomprendere in seno a tale organo i rappresentanti di ognuno degli enti associati, singoli o in cordata tra loro.

In questo quadro, verso la fine del 2016, lo statuto è stato ulteriormente rafforzato per cristallizzare il meccanismo del controllo analogo e adeguarsi ai principi di cui al d.lgs n.175 del 2016 [7] ed è stato altresì approvato apposito patto parasociale che prevede il potere di indirizzo vincolante del singolo socio (qualunque sia la quota posseduta) sulle delibere, sia assembleari che del Consiglio di amministrazione, riguardanti le tariffe, le modalità gestionali e di espletamento del servizio etc. inerenti il proprio ambito territoriale.

A avviso della Sezione risultano pertanto rispettati i principi generali di cui alla sentenza CGUE 29 novembre 2011 (in C-182/2011 [8]) in materia di controllo analogo “congiunto”, laddove non si richiede che ciascuno degli enti pubblici partecipanti possa esercitare un potere individuale su tale entità, bensì che “ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale, sia agli organi direttivi dell’entità suddetta”. Nel caso di specie, infatti, la quota detenuta dal comune è di per sé idonea ad integrare uno dei due presupposti di cui si è detto, e risulta soddisfatto anche il secondo criterio, dato dall’effettiva partecipazione dell’ente partecipante agli organi direttivi in quanto, ai sensi dell’art. 12 della direttiva 2014/24/UE [4] “singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni partecipanti” .

In conclusione, possono ritenersi sussistere i presupposti di cui all’art. 12 della direttiva 2014/24/UE [4] ai fini della legittimità dell’affidamento diretto, ossia:

1. la totale partecipazione pubblica del capitale della società incaricata della gestione del servizio (nel caso di specie, non è infatti consentito l’apporto di capitali privati);

2. la realizzazione, da parte della suddetta società, della parte preponderante della propria attività con gli enti controllanti (è previsto che la società dovrà operare in via prevalente con gli enti partecipanti);

3. il controllo analogo sulla società partecipata da parte dei medesimi enti (cd. controllo frammentato o congiunto).

Ne consegue l’infondatezza delle doglianze prospettate da parte appellante in merito all’insussistenza dei presupposti del cd. “controllo analogo”(1).

Stefania Fabris

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(1) Al riguardo, trova tra l’altro applicazione il precedente di cui alla sentenza CdS n. 1447/2011 [9], a mente del quale “nel caso di affidamento in house, conseguente all’istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata […] il requisito del controllo analogo deve essere quindi verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente (v. C.d.S., Sez. V, n. 7092/2010 [10]; n. 5082/2009; n. 1365/2009)”.