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Il giudice competente in materia di cessione di partecipazioni in società pubbliche10 min read

Il ricorso per l’annullamento di atti inerenti alla vendita di azioni di una società a partecipazione pubblica locale esula dalla sfera di giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la relativa controversia non riguarda la concessione di pubblici servizi, né coinvolge provvedimenti autoritativi afferenti la modificazione di un soggetto gestore di siffatti servizi.

 TAR Veneto, sez. I, sentenza del 18 febbraio 2013, n. 241, Pres. B. Amoroso, Est. C. Rovis

Il caso

Un ente locale aliena, con una gara, la propria partecipazione azionaria in seno ad una società di trasporto pubblico locale. Un concorrente ricorre avverso l’aggiudicazione del contratto

La sentenza

Secondo il TAR, nella fattispecie oggetto del ricorso l’Ente socio mira a individuare un operatore economico con cui stipulare non già un contratto “pubblico” munito di rilevanza istituzionale, bensì un contratto di carattere squisitamente privatistico (alienazione di azioni), che l’Ente locale pone in essere uti civis, ossia alla stregua di un qualsiasi altro socio di società di capitali.

Questo il principio affermato dal TAR Veneto, con la sentenza breve che si annota, in esito al contenzioso promosso dal socio privato di una società di trasporto pubblico locale contro il socio pubblico/Ente locale, per avere questi intrapreso una gara a evidenza pubblica prima, e una procedura negoziata poi, per alienare la propria partecipazione azionaria in seno alla società medesima.

Di qui la decisione del TAR che, nelle peculiari circostanze date e per le motivazioni dianzi esposte, rileva l’inammissibilità del ricorso di cui trattasi per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Il commento

La vicenda addotta in giudizio mette in luce ancora una volta quanto sia talora problematica la coesistenza, nella compagine di una società mista, di soggetti pubblici e privati, i quali, per definizione, sono mossi da interessi e da strategie d’azione differenti, se non addirittura antitetiche.

A tutt’oggi si pone, in altre parole, l’eterno e insoluto dilemma che può sintetizzarsi nei seguenti termini.

La logica del profitto – ossia lo scopo di lucro che il soggetto privato persegue con la propria attività d’impresa – non sempre è compatibile con la necessità di garantire che un determinato servizio pubblico sia erogato a favore dei cittadini, non soltanto secondo i canoni di efficienza, efficacia ed economicità, ma anche (e soprattutto) in ottemperanza alle prefissate e irrinunciabili finalità di pubblico interesse.

A una simile vexata quaestio fa riferimento anche la Corte di giustizia nella sentenza dell’11 gennaio 2005 – causa C-26/03 (caso Stadt Hall), là dove si rileva che “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, e i suoi servizi sottostà a considerazioni ed esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”.

A parte, comunque, le considerazioni di massima appena esposte, è fuor di dubbio che la pronuncia in commento assume un rilievo tutto particolare nell’attuale scenario amministrativo, ove il processo di privatizzazione dei servizi pubblici locali sembra prendere il sopravvento sull’impulso per la liberalizzazione del settore, che si è arrestato quasi sul nascere e, in ogni caso, prima di giungere al suo maturo sviluppo.

La disciplina dei servizi pubblici locali, che da tempo è in cerca di un assetto stabile e duraturo, è stata contrassegnata nel recente passato da un moto oscillatorio tra due poli, ossia tra il processo di liberalizzazione dei servizi locali da un lato, e il processo di privatizzazione delle società partecipate, dall’altro.

Per quanto riguarda il primo aspetto in questione, si può ricordare che la riforma introdotta dall’art. 4 del DL n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 148/201, per colmare il vuoto normativo conseguente all’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis del DL 112/2008 è stata anch’essa cancellata con un colpo di spugna dalla sentenza della Consulta n. 199 del 20 luglio 2012.

Tale pronuncia, in buona sostanza, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 4 per avere tale norma riprodotto in larga parte l’art. 23 bis del DL 112/2008, in contrasto – come si legge nella decisione – con “il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”.

Secondo quanto ha lasciato intendere la segnalazione dell’Antitrust inviata al Governo il 1 ottobre 2012, si può assumere che, dopo tale intervento della Corte Costituzionale, il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali si sia definitivamente arenato.

In tale circostanza, l’Autorità garante ha preso atto che “il grado di liberalizzazione del settore dei servizi pubblici è ancora insufficiente”, dacché “l’affidamento diretto, prevalentemente nella forma dell’in house providing, rimane la soluzione generalmente prescelta dagli Enti locali per la gestione dei servizi”.

Ciò premesso, e richiamata la sentenza della Consulta n. 199/2012, l’Authority esclude, per l’appunto, l’opportunità di un ulteriore intervento legislativo di carattere generale (i cui contenuti potrebbero nuovamente risultare di dubbia costituzionalità), e suggerisce all’Esecutivo di concentrare invece l’attenzione su taluni settori ove esiste maggiore spazio di manovra per favorire la concorrenza, come il trasporto pubblico locale e il servizio di gestione dei rifiuti urbani.

Fatto sta che oggigiorno, nella congiuntura venutasi a creare, l’assenza di una disciplina generale per i servizi locali comporta – come la Corte Costituzionale aveva già affermato nella sentenza n. 24/2011, in ordine alla prospettata (analoga) abrogazione dell’art. 23 bis del DL 112/2008 – “l’applicazione immediata all’ordinamento italiano della normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara a evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica”, e di conseguenza l’ammissione di “ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica”.

In linea con queste considerazioni si pone il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 762/2013, secondo cui nel vigente quadro normativo è venuto meno il principio dell’eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilievo economico.

Per dirla in altre parole, il settore dei servizi locali sembra ormai approdare a una forma organizzativa connotata dall’autoproduzione dei servizi, come pure emerge dal rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ove si legge che gli organismi partecipati dagli Enti locali in Italia sono circa 5.000, e il 78% di essi gestisce un pubblico servizio ottenuto direttamente (ossia senza gara) dall’Ente affidante.

In un siffatto contesto, non è difficile rilevare che, a partire dalla seconda metà del 2012, l’ago della bilancia relativo al settore dei servizi pubblici locali si è decisamente spostato dal processo di liberalizzazione a quello di privatizzazione delle società partecipate.

Si può evocare, sotto questo profilo, l’art. 4 del DL 95/2012, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135 (cosiddetta spending review), destinato a incidere drasticamente sull’organizzazione dei servizi locali, mediante l’obbligo imposto agli Enti di sciogliere o privatizzare le società strumentali, ossia le società che hanno per oggetto il disimpegno di servizi non erogati a una indifferenziata collettività di utenti, bensì rivolti al soddisfacimento di un bisogno diretto dell’Ente locale committente, come accade, per esempio, nel caso del servizio di pulizie, di riscaldamento e climatizzazione edifici comunali, oppure nel caso del servizio di manutenzioni impiantistiche.

Ai sensi di tale art. 4 è disposto che, rispetto alle società controllate in via diretta o indiretta che abbiano realizzato nel 2011 un fatturato superiore al 90 % per la prestazione di siffatti servizi all’Ente locale, quest’ultimo procede alternativamente:

a)     allo scioglimento entro il 31 dicembre 2013, con il beneficio di un regime fiscale agevolato;

b)    all’alienazione con gara pubblica entro il 30 giugno 2013.

La disposizione precisa che L’Ente locale, a seguito del venir meno della società strumentale, è tenuto alla contestuale assegnazione dei servizi sul mercato per 5 anni, non rinnovabili, a decorrere dal 1 gennaio 2014, con l’avvertenza che il bando di gara dovrà considerare, tra gli elementi rilevanti di valutazione dell’offerta, l’adozione di strumenti a tutela dei livelli di occupazione.

In tale prospettiva l’Antitrust, con la recente comunicazione del 4 febbraio 2013, rammenta che “si definiscono strumentali all’attività della Pubblica amministrazione, in funzione della loro attività, tutti quei beni e servizi erogati da società a diretto e immediato supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l’ente pubblico di riferimento e con i quali lo stesso Ente provvede al perseguimento dei propri fini istituzionali”.

Passando poi all’ipotesi di deroga all’obbligo di mettere in gara i servizi strumentali, che l’art. 4, comma 3 del DL 95/2012 circoscrive all’ipotesi in cui “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato”, l’AGCM ricorda agli Enti locali che tali deroghe rivestono “carattere eccezionale, e devono formare oggetto di adeguata istruttoria e relativa motivazione e giustificazione da parte delle Amministrazioni”.

Il rigore delle indicazioni impartite per l’istanza di deroga all’obbligo di dismettere le società strumentali fa ritenere che per tali società non vi siano ampi margini di sopravvivenza, e di ciò dovrebbero sicuramente tenere conto gli Enti territoriali nella programmazione delle scelte strategiche.

L’intervento della spending review in materia di dismissione di società strumentali non è tuttavia l’unico elemento che fa scendere il piatto della bilancia sul versante del processo di privatizzazione dei servizi locali.

Nella stessa direzione, infatti, punta l’esigenza di attuare nel breve periodo quanto disposto dall’art. 14, comma 32 del DL 78/2010, convertito nella legge 122/2010, in ordine all’obbligo per i Comuni minori di chiudere le società in perdita.

L’argomento è un tema cruciale, che sta inducendo molti Enti locali a pianificare operazioni complesse di carattere straordinario da avviarsi a breve termine, per ottemperare agli stringenti obblighi di legge in materia.

La genesi di una disposizione così severa risale al fatto che il legislatore si è ormai reso conto che negli ultimi anni lo strumento societario è stato utilizzato alle Amministrazioni per porre in essere forme di gestione che solo formalmente risultano attribuibili a un soggetto esterno, ma che in sostanza sono riferibili alla PA, stante il rapporto di immedesimazione organica che intercorre tra l’Ente affidante e la società in house.

Alla luce del fatto che oltre un terzo delle società a partecipazione pubblica locale ha chiuso in perdita almeno uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010, appare evidente la ragione per cui la Corte dei Conti, nel sopra citato rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ha ritenuto che la revisione del perimetro delle società pubbliche debba essere considerata un’operazione essenziale non solo per attuare una riduzione della spesa, ma anche per rendere più efficiente l’azione pubblica.

Sotto questo profilo, l’art. 14, comma 32 del DL 78/2010 non si è limitato – come aveva in precedenza stabilito l’art. 3, commi 27 e seguenti della legge 244/2007 – a circoscrivere l’impiego delle società, da parte degli Enti locali, alle sole attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle relative finalità istituzionali, ma si è spinto a disporre la sostanziale fuoriuscita di una larga parte dei Comuni dalle rispettive società partecipate.

La norma de qua, nella versione oggi vigente, obbliga i Comuni con popolazione inferiore ai 30 mila abitanti a dismettere, entro il 30 settembre 2013, le società partecipate che abbiano registrato anche un solo bilancio in perdita negli esercizi 2010, 2011 e 2012.

È facile prevedere che tale disposto avrà l’effetto di incidere in maniera profonda, durevole e irreversibile sugli assetti organizzativi del nostro territorio, dacché su un totale di 8101 Comuni esistenti in Italia ben 7797 sono gli Enti con una popolazione al di sotto dei 30 mila abitanti.

Nel contesto descritto, è più agevole comprendere l’importanza della pronuncia n. 241/2013 del TAR Veneto, che ascrive alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie inerenti alle procedure di dismissione poste in essere dagli Enti locali per la vendita di partecipazioni societarie.

Si tratta di un tassello con una valenza strategica che, nel quadro generale appena tratteggiato, dovrebbe indurre le Amministrazioni locali ad affinare ancor più le competenze professionali da mettere in campo per alienare le rispettive partecipazioni, non solo nella prospettiva di dare corso a un corretto disimpegno delle procedure amministrative di tipo pubblicistico, ma anche allo scopo di operare, a contatto con gli operatori economici, con piena cognizione di causa sul piano del diritto civile e societario.