I comuni sono tenuti a rimborsare alle “società partecipate – datrici di lavoro” i permessi usufruiti per mandato elettivo dagli amministratori, a meno che non si tratti di dipendenti di proprie società in house.

Gli amministratori comunali, che siano nel contempo lavoratori dipendenti ( pubblici e privati), dispongono del diritto di assentarsi dal servizio per presenziare alle attività del mandato elettivo: in termini (tipici) di partecipazione a sedute di giunta/consiglio/commissioni formalmente istituite, ivi compresi i connessi tempi di spostamento; senza poi dimenticare ulteriori attività “atipiche”, sia pure riservate a soggetti di vertice (c.d. leader), entro precostituiti limiti orari massimi da calcolarsi su base mensile (dalle 24 alle 48 ore).

Tali assenze dal servizio sono comunque retribuite al lavoratore dal datore di lavoro (c.d. “permessi retribuiti”).

Gli oneri discendenti da cotanti permessi restano, tuttavia, a carico dell’ente di esercizio delle funzioni pubbliche, colla tecnica del rimborso entro n. 30 giorni dalla richiesta, nei casi di lavoratori dipendenti da privati o enti pubblici economici.

Viceversa, il “datore di lavoro – pubblica amministrazione” ci rimette, non essendo abilitato alla richiesta di rimborso.

E tutto ciò, ai sensi degli articoli 79 e 80 del T.U.E.L.

La “ratio” di questa disciplina viene comunemente (e pleonasticamente) individuata nella finalità di evitare che l’esercizio di funzioni elettive vada a gravare su patrimoni privati, in ossequio al generale principio civilistico del divieto di arricchimento indebito; il “pubblico” deve, invece, farsi carico di tutte le possibili proiezioni poste a conseguimento degli interessi della collettività. Anche se quest’ultima granitica certezza inizia ad essere messa in discussione dall’evoluzione della Costituzione Materiale ed Economica, che sembra valorizzare l’autonomia e la responsabilizzazione dei diversi centri di spesa pubblici nella sana gestione delle risorse proprie e nell’osservanza dei propri equilibri di bilancio.

Ma a questo punto, sorge spontanea la domanda: come si applica alle società integralmente – prevalentemente partecipate dagli enti locali la scansione appena delineata, essendo le stesse, banalizzando un po’, formalmente private ma sostanzialmente pubbliche?

Allo stato attuale dell’arte, le diverse sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, si schierano nettamente a favore dell’obbligo di rimborso: la posizione di maggiore tutela per le casse societarie, vince, al momento, per “3 – 0”.*

Si esclude, quindi, con decisione la ricaduta sulle società partecipate dei costi della politica, a fronte delle considerazioni che seguono.

Innanzi tutto, esse non risultano assoggettate ad uno statuto giuridico omogeneo, che consenta di assimilarle in modo univoco, quanto a natura giuridica, alle società a capitale interamente privato ovvero alle amministrazioni pubbliche.

Nel caso specifico, tuttavia, spostano l’ago della bilancia, a favore della configurazione privatistica, i seguenti elementi:
– la forma giuridica, per l’appunto societaria e di capitali;
– lo svolgimento di attività in regime di stretta economicità;
– l’assenza di stringenti obblighi di consolidamento dei conti con i bilanci degli enti fruitori delle prestazioni (a dire il vero, condizione in fase di lento superamento, che subirà una brusca accelerazione con l’armonizzazione delle contabilità pubbliche);
– la distinzione soggettiva tra società e soci, che impedisce a questi ultimi, ancorché detentori della maggioranza o della totalità del capitale sociale, di incidere unilateralmente sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri prettamente autoritativi;
– la separazione dei rispettivi patrimoni, che esclude che la provenienza pubblica delle risorse impiegate nel capitale sociale comporti automaticamente l’acquisizione della natura pubblicistica in capo alle disponibilità finanziarie della società.

Si considera, invece, neutra ed indifferente, ai fini della soluzione della problematica in esame, l’inclusione o meno nell’elenco delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001 ovvero nel conto consolidato del settore pubblico, in sede di appositi provvedimenti dell’ISTAT, annualmente pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, stante l’agevole relegabilità nell’angolo della mera “omogenea costruzione dei macro aggregati di finanza pubblica”, senza incidenza rilevante su natura e sostanza.

Risulta ugualmente scevro di particolare significato il difetto di attribuzione espressa, da parte del legislatore, della personalità giuridica di diritto pubblico: “a contrario”, gli enti pubblici economici, pur provvisti di tale personalità, godono, per espressa previsione legislativa, del diritto al rimborso.

In definitiva, le società partecipate dagli enti locali restano, quanto meno ai fini qui trattati, organismi di diritto privato a tutti gli effetti, a prescindere dal perseguimento di finalità proprie degli enti soci: come evidenziato, anche l’esistenza di disposizioni speciali, sintomatiche di una certa rilevanza pubblicistica dei compiti assegnati, non è difatti sufficiente a legittimare il riconoscimento della natura pubblica, non alterandosi i normali meccanismi di funzionamento o le ordinarie forme di organizzazione proprie del modello societario.

Anche se, tra le righe, incidenter tantum, sembra potersi cogliere, negli ambiti non coperti dai diktat giuscontabili, l’evitabilità del rimborso nelle fattispecie afferenti a “dipendenti di società in house – politici negli enti integralmente proprietari”, ove i “distinguo” appena praticati equivarrebbero all’arrampicarsi sugli specchi!

Ovviamente, deve trattarsi, in quest’ultimo ma anche in buona parte degli altri casi, di soggetti sprovvisti, all’interno della società, di poteri di direzione, rappresentanza o coordinamento, altrimenti scatterebbero dinamiche da incompatibilità e questa sarebbe tutta un’altra storia …

Roberto Maria Carbonara, segretario comunale

* 1) Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Lazio, deliberazione n. 182 del 9 settembre 2013; 2) Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 346 del 28 maggio 2014; 3) Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 198 del 18 settembre 2014.


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