L’ente pubblico non può mantenere partecipazioni in società dichiarate insolventi ma deve riaffidare il servizio sul mercato a prescindere dalla formale determinazione in sede di ricognizione straordinaria delle partecipate.

La legge fallimentare prevede eccezionalmente la possibilità di un esercizio provvisorio, in toto o limitatamente a singoli rami dell’impresa, per salvaguardare l’avviamento aziendale e sempre che ciò non arrechi pregiudizio ai creditori.

Corte dei conti, sezione di controllo per la regione siciliana, deliberazione n. 143 del 20 settembre 2017 presidente f.f. Albo, relatore Alessandro

A margine

Fatto – Ai fini della ricognizione straordinaria delle proprie partecipazioni, un comune domanda se vadano dismesse anche le società che versino nella condizione di cui all’art. 14, co. 6, del T.U.S.P. n. 175/2016 e s.m.i., ovvero le società operanti nei medesimi settori di altre dichiarate fallite.

Ai sensi di questa disposizione “Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita”.

Parere – La Corte ricorda che l’art. 14, co 6, del T.U.S.P. si colloca all’interno della disciplina della “crisi di impresa delle società a partecipazione pubblica”, con la quale il legislatore ha ribadito espressamente:

  • l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi;
  • l’obbligo di adottare tempestivamente gli interventi atti a scongiurare le crisi d’impresa e ad assicurare il risanamento dell’ente;
  • il divieto di interventi di “mero soccorso finanziario”.

Rilevano altresì, quale principi immanenti per le amministrazioni pubbliche, il divieto di detenere partecipazioni in soggetti sistematicamente in perdita o di fatto insolventi, e il divieto di interventi di mero soccorso finanziario preordinati ad occultare o alleggerire momentaneamente tale condizione.

Precisato ciò, la ratio dell’art. 14, co. 6, del T.U.S.P., attiene a una fase successiva al monitoraggio ed alla prevenzione delle crisi aziendali, per obbligare l’ente pubblico a ricorrere al mercato una volta che si sia verificato un “fallimento dell’intervento pubblico”, inibendo la possibilità stessa di costituire o mantenere partecipazioni societarie operanti nell’ambito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società a controllo pubblico già titolare di affidamento diretto.

Rispetto al quesito del comune, la Corte fa presente che la disposizione di cui all’art. 24 del T.U.S.P. sulla “revisione straordinaria delle partecipazioni”, quale norma di sistema, opera sul piano della pianificazione e del necessario momento ricognitivo e decisionale. Diversamente, l’art. 14 introduce un divieto perentorio e prescinde dalla formale determinazione dell’ente in sede di ricognizione delle partecipazioni.

Questa norma prevede, in particolare, che il “fallimento” dell’intervento pubblico venga “sanzionato” con l’obbligo di ricorrere al mercato e col divieto per l’amministrazione di assumere (almeno per cinque anni) l’organizzazione e la gestione del servizio attraverso la partecipazione a una società c.d. in house (ossia suscettibile di un controllo analogo a quello svolto nei confronti dei propri organi interni).

Ciò posto, la Corte conferma che l’ente pubblico non può mantenere partecipazioni in società dichiarate insolventi ma deve riaffidare il servizio sul mercato.

In questi casi, in linea di principio, il fallimento della società a partecipazione pubblica determinerà la cessazione dell’attività già esercitata dalla stessa.

La legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e s.m.i.) – ancorché non espressamente richiamata dalla norma del T.U.S.P. – prevede eccezionalmente la possibilità di un esercizio provvisorio (art. 104), in toto o limitatamente a singoli rami dell’impresa, allo scopo di salvaguardare l’avviamento aziendale e sempre che non arrechi pregiudizio ai creditori.

La ratio della prosecuzione dell’impresa con la gestione sostitutiva del curatore fallimentare, cui è preordinata la tendenziale continuazione dei contratti pendenti (art. 104, comma 7, della legge fallimentare), è quella di continuare a perseguire le finalità per le quali la società è stata costituita o acquisita ed è partecipata o controllata dall’amministrazione pubblica socia al fine di garantire la continuità ed evitare un’interruzione pregiudizievole per la collettività.

A tal riguardo, la Corte ritiene pertinente anche il richiamo all’art. 110, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016, che, in riferimento all’ “esecuzione” degli appalti per lavori, servizi e forniture, prevede che il curatore del fallimento autorizzato all’esercizio provvisorio possa “eseguire i contratti già stipulati dall’impresa fallita”.

In proposito occorre però tener conto:

  • da un lato, dei problemi di compatibilità della “gestione sostitutiva” del curatore con l’esercizio dei poteri di “controllo analogo” da parte dell’amministrazione controllante alla cui stregua è stato originariamente consentito l’affidamento diretto, atteso che la natura della vigilanza degli organi della procedura sull’esercizio provvisorio non è corrispondente al peculiare controllo tecnico-economico del committente pubblico;
  • dall’altro lato, della possibilità per l’amministrazione di attivare i rimedi negoziali previsti per la risoluzione del contratto di appalto o di concessione e di riaffidare il servizio mediante il ricorso al mercato. Non a caso, proprio la previsione di cui all’art. 14, comma 6, del T.U.S.P. induce a ritenere che l’ente pubblico non possa mantenere partecipazioni in società dichiarate insolventi ma debba riaffidare il servizio sul mercato.

Stefania Fabris


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