L’abrogazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 1, ossia della disposizione che prevedeva la emissione di “avvisi di liquidazione”, ove l’ente locale si fosse limitato a “correggere gli errori materiali e di calcolo” della dichiarazione o della denuncia), disposta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 173, lett. d), non ha eliminato la potestà dei Comuni di emettere anche “avvisi di liquidazione“. Gli enti possono e debbono continuare a notificare detti avvisi al contribuente tutte le volte in cui non intervengono per “rettificare dichiarazioni incomplete o infedeli” ovvero per accertare d’ufficio la imposta in caso “di omessa dichiarazione”.

Cass. civ., Sez. V, Sent. n. 1659 del 24.1.2013.

Commento – La pronuncia affronta due problematiche: l’adottabilità degli avvisi di liquidazione in materia di ICI dopo l’intervento della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 173, lett. d), che ha abrogato l’art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 504 del 1992, e l’individuazione dell’organo competente all’emissione di siffatti avvisi.

Conclude il giudice della legittimità confermando l’orientamento che riconosce ancor oggi in capo ai Comuni la potestà di emettere anche “avvisi di liquidazione”, quando la rendita originaria provvisoria, dichiarata dal contribuente, viene sostituita dalla rendita definitiva.

Anche con riferimento alla competenza amministrativa, la Corte ribadisce l’interpretazione già fornita in precedenza (cfr. Corte cass. 5^ sez. 12.5.2010 n. 11445; id. 5^ sez. 18.6.2010 n. 14821).

Non è richiesta la “qualifica dirigenziale” né risulta sempre necessaria la nomina con provvedimento della Giunta municipale, secondo la disposizione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 4.

Infatti, le competenze dirigenziali in materia di esercizio della potestà impositiva possono essere attribuite al funzionario, con provvedimento – di competenza sindacale – emesso ai sensi del T.U. n. 267 del 2000, art. 109, comma 2, quando ricorre il presupposto della mancanza, nella pianta organica dell’ente locale, di personale con qualifica dirigenziale.

Svolgimento del processo
Il Comune di V., dopo aver provveduto alla correzione della denuncia ICI presentata nell’anno 1993 dal contribuente P.G. (avente ad oggetto un immobile adibito ad albergo ed un terreno agricolo per i quali era stata indicata una rendita di Euro 2.802.50 inferiore a quella effettiva determinata in Euro 5.763,66) ed aver ricalcolato la esatta imposta dovuta a far data dall’anno 1998, ha notificato al contribuente in data 7.2.2007 “avviso di liquidazione” ICI per l’anno d’imposta 2005 recante la differenza d’imposta tra quanto già corrisposto e quanto ancora dovuto.

Entrambi i giudizi di primo e secondo grado aventi ad oggetto la impugnazione del predetto avviso di liquidazione si sono risolti con esito negativo per il contribuente.

Il Giudice di appello, con sentenza 21.5.2009 n. 31, ha rigettato i numerosi motivi di gravame, sulla base delle “rationes decidendo di seguito riassunte:

– il Comune non è incorso in decadenza in quanto la notifica in data 7.2.2007 dell’avviso di liquidazione, relativa ad un anno di imposta (2005) per il quale non doveva essere presentata la dichiarazione (essendo stata già presentata dal contribuente nel 1993), è intervenuta nel termine stabilito dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2 (31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere pagata la imposta), termine, peraltro, che, relativamente ai “rapporti pendenti” alla data di entrata in vigore della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007), era stato esteso al 31 dicembre del “quinto anno successivo” a quello in cui il versamento avrebbe dovuto essere effettuato;

– non sussisteva alcuno obbligo di allegazione della Delib. CC n. 14 del 2005 e della Delib. GC n. 211 del 2004 recanti determinazione delle aliquote ICI per l’anno 2005, in quanto l’avviso di liquidazione, se pur denominato “atto di attribuzione rendita”, non aveva provveduto a rideterminare le rendite catastali ma soltanto a correggere i dati errati contenuti nella originaria dichiarazione del contribuente, il quale in data 11.11.2004 aveva presentato istanza di correzione in autotutela e dunque conosceva la propria posizione;

– l’avviso di liquidazione era esente da vizi di nullità in quanto sottoscritto dal “funzionario responsabile del servizio tributi” al quale, nei Comuni sprovvisti di personale con qualifica dirigenziale, tale competenza poteva essere – e nel caso di specie era stata – attribuita, con delibera ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107, commi 2 e 3, art. 109, comma 2; inoltre l’atto tributario conteneva la indicazione del responsabile del procedimento e le avvertenze relative alla impugnabilità del provvedimento prescritti dalla legge;

– le sanzioni pecuniarie D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 13, comma 1 erano state irrogate legittimamente in quanto le situazioni soggettive ed oggettive previste dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7 per la commisurazione della sanzione erano state tutte considerate dal Comune, che aveva applicato correttamente le norme di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5, escludendo la continuazione in presenza di reiterazione di illeciti tributari della stessa indole commessi in diversi anni di imposta;

– la liquidazione delle spese del giudizio di primo grado, regolata con condanna del contribuente soccombente, era immune da vizi, non sussistendo giustificate ragioni per disporre la compensazione delle spese di lite, mentre la liquidazione onnicomprensiva di Euro 500,00 doveva intendersi riferita esclusivamente alla voce “onorari” professionali.

Avverso la sentenza di appello, non notificata, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto mezzi.

Ha resistito con controricorso il Comune di V.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la sentenza di appello viene censurata per violazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50, commi 2 e 3, art. 107, commi 2 e 3; del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 4, nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Il ricorrente riproduce il medesimo motivo già proposto nei gradi di merito, asserendo: 1-che il funzionario sottoscrittore dell’avviso era privo della necessaria “qualifica dirigenziale”; 1-che la CTP avrebbe errato affermando che “la dott.ssa R. è stata nominata con atto sindacale responsabile del settore tributario con compiti dirigenziali a decorrere dall’anno 2000” in difetto della produzione in giudizio della relativa Delib. della Giunta comunale di nomina del funzionario, ed in analogo errore sarebbe caduto anche il Giudice di appello.

1.1 Il motivo è infondato in relazione ad entrambi i profili di illegittimità prospettati.

1.2 Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che il rapporto di specialità che regola il conflitto tra le disposizioni del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 4 – secondo cui: “Con Delib. della giunta comunale è designato un funzionano cui sono conferiti le funzioni e i poteri per l’esercizio di ogni attività organizzativa e gestionale dell’imposta: il predetto funzionario sottoscrive anche le richieste, gli avvisi e i provvedimenti, appone il visto di esecutività sui ruoli e dispone i rimborsi” – (lex specialis), e le disposizioni del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 107, comma 2 e art. 109, comma 1 – secondo cui “la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti”, e gli incarichi dirigenziali sono conferiti con provvedimento motivato del Sindaco – (lex generalis), va risolta alla stregua del principio “lex posterior generalis non derogat priori speciali”, rimanendo esclusa, ai fini della risoluzione del conflitto tra norme di legge, l’applicazione del criterio cronologico, in conseguenza della mancata specifica abrogazione, da parte del T.U. n. 267 del 2000, della indicata disposizione normativa anteriore, atteso che l’art. 274, comma 1, lett. x) ed y) si è limitato ad abrogare espressamente soltanto l’art. 3, comma 9 – in parte – e il D.Lgs. n. 504 del 1992, artt. da 44 a 47, intendendo in tal modo confermare la vigenza delle altre norme del medesimo decreto legislativo, tra cui l’art. 11, comma 4, che continua, pertanto, a trovare applicazione (cfr. Corte cass. 5^ sez. 15.4.2005 n. 7905).

Ne consegue che stante il chiaro tenore della norma (che fa riferimento alla figura del “funzionario” e non del “dirigente”) la censura si palesa infondata, non essendo richiesta la “qualifica dirigenziale” per l’esercizio della potestà amministrativa relativa alla emissione dell’avviso di liquidazione ICI (cfr. Corte cass. 5^ sez. 12.5.2010 n. 11445; id. 5^ sez. 18.6.2010 n. 14821).

Nè assume autonomo rilievo la circostanza per cui il provvedimento in questione, secondo la disposizione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 4, deve essere adottato dalla Giunta municipale e non dal Sindaco. E’ appena il caso di osservare, infatti, che i Giudici territoriali hanno ritenuto legittimo l'”avviso di liquidazione” in quanto le competenze dirigenziali in materia di esercizio della potestà impositiva erano state attribuite al funzionario, che ne era privo, in virtù di provvedimento – di competenza sindacale – emesso ai sensi del T.U. n. 267 del 2000, art. 109, comma 2, ricorrendo nella specie il presupposto della mancanza, nella pianta organica dell’ente locale, di personale con qualifica dirigenziale.

Ne consegue che il funzionario responsabile del Servizi tributi ha sottoscritto l’avviso di liquidazione ‘”come dirigente”, venendo quindi meno “ab origine” la prospettata illegittimità dell’atto impositivo per difetto di conferimento della necessaria potestà amministrativa dirigenziale.

1.3 Il primo motivo è infondato anche in relazione al secondo profilo di censura con il quale si deduce violazione della regola generale su riparto dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.), tale almeno sembrerebbe doversi intendere il senso del quesito di diritto, letto in coordinamento con le norme denunciate in rubrica.

Osserva il Collegio che, avuto riguardo alla specificità del giudizio tributario, riconducibile allo schema del processo di tipo impugnatorio esteso anche al merito del rapporto (essendo veicolata la pretesa della Amministrazione finanziaria dall’atto tributario emesso nell’esercizio della potestà impositiva), nonchè alla posizione processuale che le parti vengono ad assumere rispetto al rapporto obbligatorio dedotto in giudizio (rivestendo la Amministrazione finanziaria la posizione di attore in senso sostanziale), ne consegue, sul piano dell'”onus probandi” che grava sulla PA la dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa, mentre grava sul contribuente la prova della inefficacia dei fatti indicati dalla parte attrice, ovvero la prova dei fatti modificativi od estintivi della obbligazione tributaria, tra i quali debbono certamente ricomprendersi le eccezioni di invalidità od inefficacia, per vizi formali o sostanziali, dell’atto impositivo impugnato.

Pertanto la contestazione della qualità giuridica (qualifica dirigenziale) ovvero la contestazione dei poteri attribuiti al soggetto che ha sottoscritto il provvedimento impositivo, risolvendosi comunque nella eccezione di invalidità dell’atto tributario viziato da carenza di potere – essendo stato emesso da soggetto privo di potere di rappresentanza esterna -, pone a carico dell’eccipiente l’onere di dimostrare la insussistenza della qualità giuridica/potere rappresentativo in capo al sottoscrittore dell’atto (cfr. Corte cass. 1^ sez. 20.1.1994 n. 522; id. 1^ sez. 11.10.1996 n. 8881 – con riferimento al vizio dell’atto di delega di competenze -; id. sez, lav. 24.3.2001 n. 4310 – con riferimento alla mancanza di potere certificativi -; id. 1^ sez. 29.9.2000 n. 12919 e 1^ sez. 15.2.2007 n. 3454 secondo cui nell’atto amministrativo posto in essere in qualità di “vicario” del titolare dell’organo, il “titolo” (assenza, impedimento temporaneo o altro) che legittima l’esercizio della potestà deve presumersi (con presunzione “iuris tantum”), dovendo ritenersi che l’esercizio della potestà di sostituzione sia avvenuto nel rispetto delle condizioni previste dalla norma o dallo statuto, con la conseguenza che sono i terzi che ne abbiano concreto e tutelato interesse a dover dedurre e provare l’insussistenza delle condizioni previste per l’esercizio della potestà di sostituzione;id. 3^ sez. 13.12.2007 n. 26253 – con riferimento al potere di rappresentanza negoziale delle persone giuridiche -; id. 5^ sez. 23.4.2007 n. 9600 – con riferimento alla delega conferita al funzionario per rappresentare l’Ufficio periferico nel giudizio tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 52, comma 2).

I Giudici di appello hanno pertanto fatto corretta amministrazione della regola sul riparto dell’onere probatorio, laddove hanno ritenuto esente da vizi di legittimità l’avviso di liquidazione in assenza della produzione in giudizio del provvedimento sindacale, adottato ai sensi del T.U. n. 267 del 2000, art. 109, comma 2, gravando sul contribuente – che aveva eccepito la carenza del potere in capo al funzionario sottoscrittore – l’onere della relativa prova.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 161 e comma 173, lett. d) e del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 11, comma 1.

Il contribuente, a quanto è dato desumere dalla esposizione degli argomenti a sostegno del motivo, censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe ravvisato la “inesistenza” (per carenza della norma attributiva della potestà impositiva) dell’atto impositivo denominato “atto di attribuzione di rendita”, in quanto a seguito alla entrata in vigore della L. n. 296 del 2006 il Comune avrebbe potuto emettere soltanto “avvisi di rettifica o avvisi di ufficio” e non anche altri tipi di atti non espressamente contemplati dalla legge.

2.1 Il motivo è infondato.

2.2 Dalla sentenza di appello (pag. 2-3, 8) e dallo stesso ricorso (cfr. pag. 2) emerge che l’atto impositivo oggetto di controversia denominato “provvedimento di attribuzione rendita” era volto a correggere, peraltro su istanza in autotutela presentata dallo stesso P., i dati inesatti ed incompleti dichiarati dal contribuente nella originaria denuncia presentata nel 1993 (concernenti, a quanto è dato desumere dagli atti, la errata intestazione della titolarità e la incompleta ed inesatta identificazione catastale dell’immobile – l’immobile era stato denunciato come negozio C71 anzichè come albergo D/2 -) che avevano dato luogo ad inesatte liquidazioni della imposta, ed aveva ad oggetto la liquidazione – in base alle aliquote ICI determinate con delibere consiliari e di giunta – della maggiore imposta dovuta per l’anno 2005 rispetto agli importi già versati.

L’atto in questione è stato qualificato dal Giudice di prime cure come “avviso di accertamento in rettifica della dichiarazione infedele”, emesso ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2 (nel testo antevigente le modifiche introdotte dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161: “…da notificare al contribuente, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione o la denuncia ovvero, per gli anni in citi queste non dovevano essere presentale, a quello nel corso del quale è stato o doveva essere eseguito il versamento dell’imposta”), soluzione interpretativa dalla quale non pare essersi discostata la CTR del Piemonte che ha categoricamente escluso di essere in presenza di un atto di “nuova attribuzione di rendita” (affermazione peraltro del tutto ovvia, non rientrando tra le competenze degli enti locali la determinazione del reddito catastale degli immobili: dalle premesse in fatto riportale nella sentenza della CTR risulta che il contribuente aveva denunciato nel 1993 l’immobile con indicazione di rendita presunta; in data 24.11.2000 la Agenzia del Territorio aveva attribuito la rendita definitiva e successivamente comunicato l’atto di classamento in data 9.10.2004), essendosi limitato il Comune, con il predetto avviso, soltanto a liquidare correttamente la imposta dovuta (sentenza pag. 8).

I Giudici di merito hanno, pertanto, fatto corretto uso dei criteri ermeneutici degli atti negoziali – applicabili anche ai provvedimenti amministrativi -, ed in particolare del criterio indicato nell’art. 1363 c.c. volto a privilegiare il “significato” che risulta dal complesso dell’atto in base al collegamento sistematico tra le diverse disposizioni in esso contenute, indipendentemente dalla mera denominazione formale o dalla qualificazione giuridica (nomen juris) attribuita allo stesso atto dal soggetto emittente, con la conseguenza che la inesatta intitolazione dell’atto impositivo (“attribuzione di rendita”) deve ritenersi del tutto irrilevante, non essendo ostativa al riconoscimento, nella fattispecie, delle forme legali tipizzate di esercizio del potere impositivo del Comune, avendo ritenuto i Giudici di merito, con accertamento insindacabile in sede di legittimità in quanto scevro da errori di fatto e di diritto (non censurati dal ricorrente), che l’atto in questione presentava tutti i requisiti sostanziali dell’ “avviso di rettifica” di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2, successivamente disciplinati dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162 (cfr. Corte cass. 5 sez. 15.5.2008 n. 12194, sulla irrilevanza della denominazione formale ai fini della esatta individuazione dell’atto impositivo).

2.3 Qualora poi – seguendo la esposizione difensiva del ricorrente – l’atto impositivo dovesse essere definito come “avviso di liquidazione” alla stregua degli enunciati motivazionali della sentenza impugnata (“l’atto… corregge dati assolutamente errati dichiarati dal contribuente……liquidando correttamente quanto dovuto…non trattandosi di attribuzione di nuova rendita”: sentenza pag. 8), ipotizzando quindi che il Giudice di appello abbia voluto qualificare l’avviso opposto in modo diverso dal Giudice di primo grado (che aveva ritenuto trattarsi di “avviso di accertamento in rettifica”), anche in questo caso la censura si paleserebbe infondata in quanto, come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte, la abrogazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 1 (che prevedeva la emissione di “avvisi di liquidazione” ove l’ente locale si fosse limitato a “correggere gli errori materiali e di calcolo” della dichiarazione o della denuncia), disposta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 173, lett. d), non ha perciò stesso fatto venire meno la potestà dei Comuni di emettere anche “avvisi di liquidazione”, che bene possono essere notificati al contribuente tutte le volte in cui l’ente comunale non debba procedere a “rettificare dichiarazioni incomplete o infedeli” ovvero ad accertare d’ufficio la imposta in caso “di omessa dichiarazione” o di “omesso versamento” (L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161), come si verifica nel caso in cui la originaria rendita provvisoria dichiarata dal contribuente venga ad essere sostituita dalla rendita definitiva: in tal caso, infatti, il Comune, prendendo atto del provvedimento emesso dalla Agenzia del Territorio, legittimamente procede al recupero della maggior imposta, eventualmente dovuta, attraverso l’emissione di un avviso di liquidazione, anzichè di accertamento in rettifica, trattandosi di provvedere alla sola riscossione dell’imposta (cfr. Corte cass. 5^ sez. 12.5.2010 n. 11446; id. 5^ sez. 16.10.2009 n. 21970 – che riconduce la emissione dell’avviso di liquidazione alla mera “attività di controllo della regolarità dei versamenti” d’imposta, con riferimento alla ipotesi in cui il contribuente, dopo aver presentato denuncia con indicazione della rendita catastate presuntiva, si sia avvalso della facoltà di modificare la rendita ai sensi del D.M. 19 aprile 1994, n. 701 mediante la cd. procedura “DOCFA”-).

3. Con il terzo ed il quarto motivo il ricorrente deduce, rispettivamente, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 7, comma 1, art. 12, art. 16, comma 2 ed ancora del medesimo D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, commi 1, 2 e 3 (per vero la formulazione del quarto motivo risulta essere del tutto superflua in quanto riproducente nei medesimi termini la stessa esposizione argomentativa posta a fondamento del precedente terzo motivo ed i medesimi quesiti di diritto) assumendo che la CTR piemontese aveva omesso di pronunciare sul motivo di gravame concernente la carenza di motivazione dell’avviso relativamente alla determinazione della entità della sanzione pecuniaria irrogata, nonchè alla mancata applicazione della “continuazione” tra gli illeciti commessi negli anni 2004 e 2005.

3.1 Occorre premettere che, a quanto è dato desumere dal ricorso (pag. 3 e pag. 14) e dalla sentenza impugnata (pag. 5), il vizio dell’atto irrogativo delle sanzioni pecuniarie era stato indicato dal contribuente nella omessa motivazione circa la valutazione della “gravità della violazione”, della “personalità del trasgressore” e delle “condizioni economiche e sociali” del contribuente, criteri tutti previsti nel D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7.

Inoltre il ricorrente censura la sentenza impugnata in quanto avrebbe erroneamente escluso l’applicazione della continuazione (avendo erroneamente interpretato i Giudici di merito la disposizione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 6 secondo cui la continuazione tra le condotte illecite è impedita dalla “constatazione della violazione”), atteso che nel caso di specie le condotte violati ve, riferite agli anni 2004 e 2005, erano state contestate con atti separati ma notificati contestualmente il 7.2.2007, non ricorrendo, pertanto, con riferimento alla fattispecie concreta il presupposto al quale la norma ricollega la interruzione della continuazione, consistente nella contestazione diacronica degli illeciti.

3.2 La sentenza d’appello ha rigettato il motivo di gravame, da un lato, affermando che le circostanze oggettive e soggettive indicate dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7 erano state valutate dall’Ufficio nella determinazione degli addebiti; dall’altro affermando che il comportamento della PA risultava conforme alle disposizioni dell’art. 12, commi 2 e 5 del medesimo decreto legislativo, in quanto “le violazioni in esame si riferiscono a più anni”.

3.3 Quanto al primo profilo di censura, il Giudice di appello, con accertamento in fatto, condotto in base all’esame del provvedimento irrogativo, ha ritenuto che i criteri indicati dalla norma invocata dal contribuente erano stati considerati dall’Ufficio nella determinazione dell’ammontare della sanzione pecuniaria, con la conseguenza che il ricorrente avrebbe dovuto censurare tale statuizione in relazione al vizio di motivazione (sotto il profilo dell’errato od inesatto apprezzamento del contenuto dell’atto irrogativo) piuttosto che in relazione al dedotto “error in judicando”, andando in conseguenza incontro ad inammissibilità il motivo proposto con riferimento all’errato paradigma di legittimità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto presuppone la certezza di un fatto (assenza di motivazione dell’avviso irrogativo di sanzione sui criteri predetti) che allo stato risulta indimostrato ed anzi smentito dal contrario accertamento compiuto dai Giudici territoriali.

In ogni caso deve aggiungersi che l’illecito contestato, come emerge dalla sentenza impugnata, consisteva nel mancato versamento parziale della imposta (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13), condotta sanzionata “in misura fissa”, pari al 30% della maggiore imposta non corrisposta, con la conseguenza che nel caso di specie all’ente comunale non residuava alcun margine di discrezionalità nella commisurazione della sanzione, predeterminata ex lege, venendo quindi meno la stessa esigenza di motivazione della determinazione della entità della sanzione pecuniaria in relazione ai criteri previsti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 1 (estranea all’oggetto del presente giudizio, in quanto non dedotta nè esaminata nei gradi di merito, è la diversa questione, prevista dall’art. 7, comma 4, del “concorso di eccezionali circostanze” che rendano manifesta la sproporzione tra l’importo del tributo e la sanzione, e che legittima la riduzione ad equità della sanzione).

3.4 Quanto al profilo di censura attinente la violazione della disciplina legislativa sulla “continuazione” degli illeciti tributari, la criptica ed insufficiente motivazione della CTR piemontese secondo cui “le violazioni si riferiscono a più anni (affermazione in sè non dimostrativa della ritenuta inapplicabilità dell’istituto della continuazione: D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, commi 2 e 5), pur andando incontro a censura per l’inadeguato apparato argomentativo, è suscettibile, tuttavia, di mera correzione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, dovendo comunque escludersi, nel caso di specie, la applicazione della continuazione tra illeciti della stessa indole (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5) commessi in anni d’imposta diversi (2004 e 2005), in quanto la disciplina legislativa in esame (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, estesa anche ai tributi locali dal D.Lgs. n. 473 del 1997, art. 16 – Corte cass. Sez. 5. Sentenza n. 15554 del 02/07/2009; Sez. 5. Sentenza n. 160.11, del 07/07/2010; Sez. 5, Sentenza n. 3265 del 02/03/2012 -) prevede il concorso materiale di illeciti commessi con più azioni od omissioni, anche in tempi diversi, limitatamente a quelle sole condotte che incidano sull’esercizio dei poteri amministrativi degli uffici tributari, pregiudicando l’accertamento o la liquidazione dell’imponibile (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 2), ipotesi che rimane esclusa nel caso di specie in cui l’illecito si è consumato mediante la condotta omissiva del contribuente consistita nel mancato versamento di parte delle somme dovute, trattandosi di condotta cronologicamente successiva – attenendo alla fase della riscossione – alle predette attività impositive di accertamento e liquidazione che, pertanto, dalla stessa non possono ricevere pregiudizio (cfr. Corte cass. 5 sez. 17.1.2002 n. 450).

4. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia fa “violazione e mancata applicazione” della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, secondo periodo, nonchè della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, in relazione “all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, sostenendo che la CTR piemontese aveva omesso di pronunciare sul motivo di gravame concernente il vizio di nullità dell’avviso per omessa allegazione della delibera consiliare e della Delib. di Giunta determinative delle nuove aliquote ICI, trattandosi di atti collettivi e non di atti amministrativi a contenuto generale.

4.1 Il motivo (ove da intendersi formulato con riferimento al vizio di motivazione della sentenza dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) va incontro a pronuncia di inammissibilità in quanto – difetta del cd. “momento di sintesi” ex art. 366 bis c.p.c..

– qualora dovesse intendersi assolto l’onere predetto con la proposizione conclusiva contenuta nel ricorso al paragr. 4 della esposizione del motivo in esame, risulta, in ogni caso, erroneamente individuato il paradigma di legittimità alla stregua del quale viene richiesto il sindacato della Corte, atteso che il ricorrente richiede di cassare la sentenza per “omessa pronuncia” (in quanto il Giudice di appello “omette di pronunciarsi assolutamente sul difetto di motivazione dell’atto”) e dunque ipotizza, non un vizio di illogicità attinente alla ricostruzione della fattispecie concreta denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma una violazione attinente il corretto svolgimento dell’attività processuale censurabile esclusivamente sotto il profilo del vizio di nullità per “error in procedendo” (nella specie per violazione del principio di corrispondenza tra lo specifico motivo di gravame e quanto pronunciato) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4);

– il motivo difetta altresì del requisito della “specificità” ai sensi dell’art. 366 c.p.c. in quanto, ove volto a censurare la omissione/insufficienza motivazionale della sentenza, non fornisce alcun argomento critico giuridico a supporto della apodittica affermazione secondo cui le delibere amministrative adottate dagli enti locali ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 6 dovrebbero qualificarsi “atti collettivi” e non “atti a contenuto generale” (essendo appena il caso di rilevare in proposito come la differente natura giuridica degli atti amministrativi cd. plurimi, collettivi e generali vada ricercata. rispettivamente: a) nella specifica identificazione dei soggetti destinatari nominativamente indicati – in tal caso essendosi in presenza di un atto formalmente unico ma nel quale sono cumulati plurimi provvedimenti che rimangono giuridicamente distinti -; b) nella individuazione geografica dei soggetti destinatari che vengono in rilievo come “gruppo” territorialmente localizzato; c) nel contenuto dell’atto che pur provvedendo in concreto è caratterizzato dalla generale applicazione delle disposizioni in quanto prescinde dalla individuazione – specifica o per gruppi – dei destinatari, rivolgendosi a “chiunque” venga a trovarsi nella situazione che l’atto amministrativo generale a inteso espressamente disciplinare), omettendo del tutto di indicare le ragioni di diritto per le quali la ipotizzata differente natura giuridica delle delibere comunali sottrarrebbe le stesse alla ordinaria disciplina normativa prevista dalla disposizione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2 bis, successivamente abrogata e riprodotta nella L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, non tutti gli atti richiamati dall’avviso devono per ciò stesso essere necessariamente allegati, dovendo circoscriversi tale obbligo – sanzionato a pena di nullità, in via generale dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 e, per quanto concerne gli avvisi ICI, dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2 bis, norma abrogata e riprodotta nella L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 162 – soltanto a quegli atti che risultino indispensabili a sostenere le “ragioni” della pretesa intese in senso ampio – non limitate quindi a quelle puramente giuridiche ma comprensive anche dei presupposti di fatto -, con la conseguenza che rimangono esclusi dall’obbligo di allegazione “gli atti che si rivelano irrilevanti per il raggiungimento della detta funzione e gli atti (in specie quelli a contenuto normativo, anche secondario quali le delibere o i regolamenti comunali) giuridicamente noti per effetto ed in conseguenza dell’avvenuto espletamento delle formalità di legge relative alla loro pubblicazione” (cfr. Corte cass. 5^ sez. 17.10.2008 n. 25371; id. 5 sez. 18.12.2009 n. 26683). Occorre rilevare al riguardo che tanto nel precedente regime normativo (cfr. L. n. 142 del 1990, art. 47, comma 1 “Tutte le deliberazioni comunali …sono pubblicate mediante affissione all’albo pretorio nella sede dell’ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”) quanto nella successiva disciplina normativa (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 124, comma 1 TU enti locali), le delibere emesse dalla Giunta, sono assoggettate al medesimo regime di pubblicità legale previsto per le deliberazioni consiliari, aventi o meno natura regolamentare, essendo assicurato l’effetto di conoscibilità per i terzi dalla pubblicazione presso l’albo pretorio, con la conseguenza che la uniforme disciplina delle forme di pubblicità, applicabile alle delibere giuntali e consiliari, consente di riferire ad entrambe il principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui l’obbligo di allegazione all’avviso di accertamento non si estende agli atti dei quali il contribuente abbia già integrale conoscenza per effetto di precedente notificazione o pubblicazione degli stessi su bollettini o albi ufficiali che eventualmente ne sia stata fatta a sensi di legge (cfr. Corte cass. 5^ sez. 17.10.2008 n. 25371; id. SU 14.5.2010 n. 11722). La CTR piemontese si è conformata ai principi enunciati da questa Corte, rilevando, se pure con motivazione particolarmente stringata, che nell’avviso erano state specificamente indicate le delibere del Comune di Villastellone determinative delle aliquote ICI per l’anno 2005, e che pertanto “…risulta chiaro l’atto richiamato …” (implicitamente ritenendo superflua l’allegazione del documento all’avviso), dovendo in conseguenza ritenersi esente la sentenza di appello dalla censura prospettata che si palesa, comunque, anche infondata.

5. Con il sesto motivo il ricorrente deduce violazione e mancata applicazione della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 162, sotto il profilo del vizio motivazionale della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), rilevando che la CTR piemontese aveva “omesso di pronunciarsi”, relativamente al motivo di gravame concernente il vizio di legittimità dell’avviso per carente indicazione della autorità amministrativa presso la quale esercitare la propria tutela in via amministrativa (non è chiaro invece se il ricorrente abbia inteso formulare analoga censura alla sentenza di appello in relazione alla omessa indicazione nell’avviso del nominativo del responsabile del procedimento, non essendo riprodotta nel motivo di ricorso – cfr. paragr. 3, sesto motivo, pag. 19 – tale specifica questione già sottoposta all’esame dei Giudici di merito).

5.1 Anche tale motivo va dichiarato inammissibile:

a) in difetto di formulazione del “momento di sintesi” ex art. 366 bis c.p.c., ove la censura debba qualificarsi come vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

b) in difetto di formulazione del “quesito di diritto” ex art. 366 bis c.p.c., ove la censura debba ritenersi dedotta in relazione al vizio processuale di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4): in questo caso il motivo si palesa altresì inammissibile per errata individuazione del parametro di legittimità asseritamente violato (indicato in rubrica come vizio di motivazione).

5.2 Il motivo si manifesta, peraltro, ulteriormente inammissibile atteso che il Giudice di appello, quanto alla indicazione del funzionario responsabile del procedimento, ha accertato – mediante rilevazione diretta del contenuto del documento – che detta indicazione era regolarmente riportata nell’avviso notificato al contribuente, con la conseguenza che eventuali contestazioni rivolte a far valere l’errore percettivo avrebbero dovuto essere dedotte mediante il mezzo di impugnazione tipico predisposto dall’ordinamento per la revocazione delle sentenze (art. 395 c.p.c.).

5.3 Quanto alla omessa indicazione della autorità amministrativa “presso la quale è possibile promuovere un riesame anche del merito dell’atto in sede di autotutela”, la censura – ove rivolta a far valere la invalidità per vizio formale dell’avviso – è da ritenersi infondata alla stregua del principio enunciato da questa Corte, e dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, secondo cui “in tema di ICI, la mancata indicazione negli atti impositivi degli enti contro i quali può proporsi ricorso – in particolare il Comune per contestare l’importo richiesto e l’Agenzia del territorio per contestare la rendita attribuita – non determina alcun pregiudizio per la difesa del contribuente, in quanto si tratta di indicazioni che, ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2, non sono previste a pena di nullità e potrebbero assumere rilevanza solo se ne derivi una giustificata incertezza sui mezzi di tutela” (cfr.

Corte cass. 5^ sez. ord. 30.9.2011 n. 20024). Il contribuente, infatti, non ha allegato nè dimostrato se e quale pregiudizio sia in concreto derivato alla possibilità di esercizio dei rimedi di tutela e del proprio diritto di difesa, tenuto conto, da un lato, che, come risulta dalla sentenza impugnata, aveva in precedenza già attivato senza difficoltà, mediante presentazione in data 11.11.2004 all’Ufficio tributi del Comune di apposita dichiarazione autocertificata, la procedura di variazione in autotutela della scheda relativa alla propria posizione ICI, e che, dall’altro, nella specie, non era dato ravvisare alcuna incertezza nella individuazione della autorità competente al riesame dell’atto, venendo la stessa a coincidere necessariamente con lo stesso ente locale impositore, con la conseguenza che eventuali richieste di riesame dell’atto non avrebbero potuto che essere rivolte – come peraltro in precedenza già effettuato dal contribuente – al Comune, non spiegando alcuna rilevanza, ai fini dell’efficace esercizio da parte del contribuente della istanza di attivazione del procedimento in autotutela, la ripartizione organizzativa interna degli uffici dell’ente locale.

6. Con il settimo motivo il ricorrente impugna per violazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 la statuizione della sentenza di appello che pronunciando sul gravame che aveva investito il capo della sentenza di primo grado relativo alla liquidazione delle spese, aveva confermato la pronuncia impugnata precisando che l’importo liquidato (Euro 500,00 “onnicomprensive”) doveva intendersi riferito integralmente alla voce “onorari”.

Il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. sottoposto alla Corte (“se rientri nella competenza del giudice tributario la possibilità di compensare o meno le spese di giudizio”) è tuttavia palesemente inammissibile in quanto prescinde dallo svolgimento di qualsiasi argomento critico nei confronti della statuizione impugnata e si risolve in una domanda retorica – che non può che essere meramente reiterativa del precetto normativo – priva di alcun riferimento al caso concreto.

7. Con Voltavo motivo il ricorrente impugna il capo relativo alla liquidazione delle spese del grado di appello (determinate in complessivi Euro 1.000,00 di cui e 850,00 per onorari, e 39,00 per diritti ed Euro 11.00 per esborsi) denunciando violazione dei minimi e dei massimi tariffari in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2 bis, essendo stato difeso il Comune in tal grado da un proprio dipendente.

A quanto è dato comprendere dalla non agevole esposizione argomentativa, il ricorrente sostiene che se fossero stati applicati i minimi tariffari gli “onorari” avrebbero dovuto essere liquidati in Euro 355,00 al lordo della decurtazione del 20% prevista per legge (e quindi il capo di sentenza andrebbe cassato per la eccedenza pari ad Euro 500,00), mentre, ove in ipotesi dovessero ritenersi applicati i massimi tariffari, sebbene in difetto di espressa motivazione sul punto, gli onorari ammonterebbero ad Euro 820,00 al lordo della prevista decurtazione del 20%, e dunque il capo della sentenza di appello andrebbe cassato per l’importo eccedente pari ad Euro 35,00.

7.1 Il motivo è inammissibile non essendo stato formulato il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. e comunque non essendo stato precisato il parametro base cui riferire la violazione dei minimi e dei massimi costituito dallo scaglione tariffario determinato alla stregua del valore della causa.

8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in Euro 3.397,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

P.Q.M.
La Corte:

– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3.397,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.


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