Il TAR del Piemonte, con la sentenza della II Sezione 2 maggio 2015, n. 746 (1), decidendo una controversia che aveva per oggetto il risarcimento da illegittima rimozione dalla carica di assessore dove i danni di natura patrimoniale erano rappresentati dal venir meno dell’indennità, ha affrontato il tema della natura della indennità medesima.

Esaminate e risolte alcune questioni sui tempi e modi per l’esercizio dell’azione risarcitoria avanti al giudice amministrativo, i giudici affrontano la qualificazione del rapporto che lega la carica elettiva con l’ente di appartenenza, la natura dell’indennità di carica, e la risarcibilità del danno causato da illegittima rimozione dalla carica.

Quanto alle prime due di tali questioni, i giudici affermano che le funzioni elettive danno luogo alla instaurazione di servizio onorario dal quale deriva il diritto a percepire una indennità che non ha qualifica di onorario o retribuzione, essendo le funzioni stesse gratuite, ma di ristoro del presunto mancato guadagno per il tempo sottratto alle normali occupazioni.

Quanto alla terza, viene affermato che l’illegittima rimozione dalla carica di assessore comporta risarcimento dei danni sotto profili di natura morale, quali la perdita della possibilità di partecipare attivamente alla vita politica del Comune, e anche patrimoniale rappresentata dalla perdita dell’indennità di carica.

Il tema del risarcimento dei danni da illegittima rimozione da una carica elettiva è ampiamente trattato, e di esso si è occupata anche questa Rivista (2).

Natura dell’indennità – Merita ora attenzione la natura dell’indennità, che del tutto impropriamente viene qualificata stipendio nel linguaggio corrente, e anche nel dibattito politico che di tanto in tanto su questo tema viene acceso.

Il problema della remunerazione delle funzioni pubbliche a carico della collettività si è sempre posto. Dai tempi delle prime organizzazioni politiche delle comunità si disputa sull’impegno che si richiede a chi deve occuparsi dell’amministrazione della cosa pubblica: se dovere sociale da compiersi nell’interesse della comunità, o compito per il quale occorrono particolari doti da acquisirsi attraverso un impegno professionalmente qualificato, e per tale aspetto da remunerare.

Disputa non solo accademica, se si rileva che alla gratuità o onerosità delle funzioni venivano attribuiti in tempi antichi, come oggi, il buono o cattivo funzionamento delle istituzioni. Nella democrazia ateniese, che la letteratura celebrativa ci presenta quale migliore forma di governo, gli amministratori ai quali erano assegnate le funzioni di maggior peso ricevevano un compenso dalla città. Questo per contrastare, fin dai tempi di Pericle, l’organizzazione della vita pubblica secondo cui l’amministrazione veniva condotta da chi, per ricchezze personali, era in grado di sostenerne le spese. Fu appunto Pericle a introdurre per sé l’indennità di carica proprio per consentire a chi non possedeva le ricchezze del rivale Cimone di conseguire il potere politico.

Senonché, come ci racconta Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi, a ogni crisi politica si passava dalla onerosità alla gratuità delle cariche e viceversa, quasi che tali attribuzioni fossero, alternativamente, le sole cause del deterioramento delle istituzioni. Così accadeva durante la guerra del Peloponneso e dopo la caduta dei Quattrocento. O quando – è sempre Aristotele che lo racconta – gli ateniesi stabilirono che le cariche dovevano essere onerose, ma non a spese della comunità. Poi scoprirono che gli amministratori pubblici reperivano i mezzi per il proprio sostentamento in modo poco decoroso. Essendo stabilito che i magistrati dovessero provvedere alle loro necessità con i beni confiscati ai condannati, vi era una particolare severità nel giudicare.

La disputa sulla onerosità o gratuità delle cariche pubbliche ha assunto da noi connotazioni più marcatamente politiche. Il suffragio ristretto per l’elezione del Parlamento in epoca postrisorgimentale portava alla gratuità delle funzioni pubbliche, perché vi era la propensione a farvi accedere solo coloro che avessero mezzi di fortuna; di contro, il suffragio universale non poteva che prevedere una indennità per lo svolgimento di funzioni pubbliche per consentire a chiunque di potervi accedere.

Appare dunque corretto quanto si afferma nella sentenza, anche alla luce di un orientamento giurisprudenziale che la sentenza medesima richiama, secondo cui quanto viene percepito dall’amministratore pubblico nell’esercizio della carica elettiva non può avere qualifica di retribuzione, compenso, o onorario, ma indennità intesa anche nel senso lessicale della parola, dalla quale neppure dovrebbero scaturire i c.d. vitalizi, perché hanno natura previdenziale derivante da una retribuzione. Da qui un invito al legislatore a riconsiderare la materia perché sia restituita la natura onoraria alla funzione che viene esercitata.

Mario Bassani

Note.
1.- In questa Rivista, 8 maggio 2015, con commento di S. FABRIS.
2.- Consiglio di Stato, III, 12 febbraio 2015, n. 748, in questa Rivista, 4 marzo 2015, con commento di M. BASSANI.


Stampa articolo