L’incarico di realizzazione di un progetto di comunicazione a favore di un’impresa per l’affermazione del brand aziendale verso i potenziali clienti non può essere ricondotto all’attività di collaborazione con “giornali, riviste, enciclopedie e simili” espressione del diritto di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” ai sensi dell’art. 21, primo comma, della Costituzione e perciò non soggetta ad autorizzazione da parte della P.A. datoriale.

Corte dei conti, sez. II giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 6 dicembre 2019, n. 449, Presidente Calamaro, Relatore Guzzi

A margine

Con sentenza n. 460/2018, la Sezione giurisdizionale della Puglia della Corte dei conti condanna un dirigente provinciale per aver intrattenuto un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con la società concessionaria, presso la stessa provincia, del servizio di riscossione coattiva delle sanzioni per violazioni al codice della strada.

La condanna comporta il pagamento della somma di € 56.423,00 a favore della Provincia per i compensi ricevuti per l’incarico di collaborazione, in assenza di autorizzazione e riversamento dell’equivalente nelle casse dell’ente, in violazione dei doveri di servizio introdotti dall’art. 53, commi 6, 7 e 7 bis, del d.lgs. 165/2001.

Il dirigente ricorre in appello affermando che la sentenza di primo grado non avrebbe considerato che le prestazioni in contestazione sarebbero state svolte nella qualità di “iscritto all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti”, prerogativa che gli avrebbe consentito di svolgere “per la società, attività giornalistica di comunicazione, in regime libero professionale, senza alcun vincolo di orario, volta al raggiungimento dell’eccellenza della Brand-Immage”, come dimostrerebbero i contratti stipulati.

In particolare, si sarebbe trattato di prestazioni conformi all’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui esclude dagli obblighi e dai vincoli previsti dai commi 7 e 7 bis, di acquisire la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza e di riversare nelle casse della stessa dei compensi “derivanti: a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili”.

La sentenza

Il collegio ricorda che il riferimento operato dal comma 6 dell’art. 53 all’attività di collaborazione con “giornali, riviste, enciclopedie e simili” deve essere interpretato nel senso che la superiore esigenza di esclusiva dedizione che connota la posizione del dipendente nei confronti della pubblica amministrazione è compatibile con un’attività che costituisce espressione del diritto primario di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, ai sensi dell’art. 21, primo comma, della Costituzione.

Tuttavia, nel caso in esame, dai contratti di collaborazione depositati, non si può dedurre che le prestazioni svolte presentassero le caratteristiche previste dall’art. 53, comma 6, citato, perché, in primo luogo, non si trattava di un’attività in favore di un’azienda editoriale dedita alla pubblicazione di giornali, riviste, enciclopedie e simili, e, in secondo luogo e soprattutto, le prestazioni non si erano concretizzate nella manifestazione del pensiero nei termini sopra prospettati.

Dai contratti di collaborazione si rileva, infatti, che la società era esclusivamente dedita all’attività di “riscossione tributi locali e servizi per il territorio”, e che al fine di raggiungere i propri scopi istituzionali aveva intrapreso un progetto di “comunicazione”, per la cui realizzazione aveva ritenuto necessaria “la collaborazione di persona esperta nel ramo servizi-giornalistici e strategie di comunicazione”, “in coordinamento con l’ufficio operativo della società, al fine di implementate e progettare piani e strategie di comunicazione verso i potenziali clienti al fine del raggiungimento dell’eccellenza della Brand-Image”, ossia del marchio quale espressione dell’immagine della società verso i propri clienti.

La collaborazione del convenuto si è, dunque, collocata in un contesto operativo che presupponeva il raggiungimento di un obiettivo che, all’evidenza, nulla aveva a che vedere con l’espressione del pensiero e la manifestazione della propria cultura suscettibile di essere editata in giornali, riviste, enciclopedie e simili.

La responsabilità appurata dal primo giudice è pertanto confermata, non potendo acquisire valore esimente della colpa grave e dell’elemento oggettivo del danno le affermazioni dell’appellante secondo cui mai alcuna contestazione gli sarebbe stata “mossa nell’adempimento del proprio dovere professionale”, né che mai avrebbe “reso prestazioni lavorative “minori” (ad esempio, assentandosi o avendo ridotto la propria presenza presso l’Ente di appartenenza)”.

In proposito è sufficiente osservare che il rigore con cui il legislatore ha disciplinato l’eventualità che il pubblico dipendente possa svolgere attività professionale in favore di un soggetto terzo ovviamente prescinde dalla necessità di dover considerare se vi siano state, o meno, contestazioni nel disbrigo dei compiti di istituto, giacché ciò che all’evidenza rileva è il fatto che il dipendente sia venuto meno al dovere di esclusività, non consentendo all’amministrazione pubblica di valutare se le prestazioni in favore di terzi possano presentare eventuali profili di incompatibilità con l’interesse primario dell’ufficio di appartenenza.

L’appellante lamenta anche che la sentenza impugnata non avrebbe “tenuto conto del fatto che la somma da recuperare nei confronti del pubblico dipendente deve essere al netto delle imposte da quest’ultimo versate”.

In proposito la Corte osserva che la giurisprudenza di legittimità (Corte di cass. – sez. lavoro, sentenza 26 marzo 2010 n. 7343) e quella della stessa Corte dei conti (ex multis, Sez. III app. n. 396 del 2016; Sez. I app. n. 280 del 2017; Sez. II app. n. 536 del 2018; idem Sez. II app. n. 86 del 2019) hanno ormai chiarito che l’art. 53, comma 7, del ripetuto d.lgs. n. 165/2001, si riferisce al “compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte” e, quindi, al corrispettivo dell’attività non autorizzata al lordo dell’imposta sul medesimo dovuta, restando irrilevanti le eventuali ritenute fiscali o previdenziali.

Pertanto la Corte conferma la sentenza di primo grado.

di Simonetta Fabris


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