Cosa ne pensa il Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, sez.III, sentenza del 20 maggio 2020 n.3199, ha accolto il ricorso presentato avverso un diniego di rilascio di licenza di porto di fucile per uso caccia, disposto in forza di diversi procedimenti penali, gravanti sul richiedente, alcuni dei quali conclusi con declaratoria di prescrizione del reato o di mancanza delle condizioni di procedibilità e uno, definito il 16 aprile 2009, con condanna a due anni di reclusione e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per il delitto di falso ideologico, con successiva riabilitazione.

Cons. Stato, sez.III, 20 maggio 2020 n.3199

Il TAR aveva giudicato legittimo il diniego al rilascio della licenza espresso dal questore per ravvisata compromissione della piena affidabilità del richiedente circa l’uso legittimo delle armi, nonostante l’intervenuta revoca del divieto di detenzione da parte del Prefetto.

Il giudice di primo grado ha evidenziato che non sussiste contraddizione tra la valutazione del Questore e il diverso giudizio emesso dal Prefetto ai fini della revoca del divieto di detenzione di armi e munizioni, viste le diverse situazioni, fattuali e giuridiche, a cui i due provvedimenti (nulla osta alla detenzione di armi; licenza di porto di fucile) fanno riferimento. Infatti, si legge nel provvedimento:
1) la detenzione consente al soggetto soltanto di avere la disponibilità dell’arma, sicché per essa non occorre alcuna preventiva autorizzazione dell’Autorità di P.S., salvo l’obbligo di denuncia ed il principio che governa la materia è quello della libera detenzione delle armi nei limiti prescritti dalla legge;
2) il porto d’armi, invece, consente al soggetto il trasporto e l’utilizzo delle armi e per esso il principio è quello del divieto in generale di portare armi, rispetto al quale il porto d’armi è l’eccezione (e non un diritto assoluto).

Concordanti pronunce del Consiglio di Stato hanno più volte evidenziato la differenza tra i due titoli e il fatto che il porto d’armi riguardi non solo la capacità di abuso, ma anche la mancanza di buona condotta, ancorché per fatti estranei alla gestione delle armi.

Altro discorso interessa, invece, la valutazione dell’affidabilità e della buona condotta. Al riguardo, secondo un consolidato orientamento della sezione III del Consiglio di Stato, “il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto, potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività: il giudizio che compie l’autorità di pubblica sicurezza è conseguentemente connotato da ampia discrezionalità, sindacabile solo a fronte di vizi che afferiscano all’abnormità, alla palese contraddittorietà, all’irragionevolezza, illogicità, arbitrarietà, al travisamento dei fatti” (cfr., ex multis, C.d.S., sez.III, 26 giugno 2019, n.4403; 25 marzo 2019 n.1972; 20 novembre 2018 n.6558; 7 giugno 2018 n.3435).

La predetta sezione ha, inoltre, evidenziato che “l’autorizzazione alla detenzione e al porto d’armi postulano che il beneficiario osservi una condotta di vita improntata alla piena osservanza delle norme penali e di quelle poste a tutela dell’ordine pubblico, nonché delle regole di civile convivenza; la valutazione che compie l’Autorità di Pubblica Sicurezza in materia è caratterizzata, quindi, da ampia discrezionalità e persegue lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l’abuso di armi da parte di soggetti noti pienamente affidabili; il giudizio di non affidabilità è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a buona condotta” (così C.d.S., sez.III, 6 dicembre 2019, n.8360; 10 agosto 2016, n.3590).

Tuttavia, la Sezione ha precisato che nella materia in esame il giudizio prognostico deve essere effettuato sulla base del prudente apprezzamento di tutte le circostanze di fatto rilevanti nella concreta fattispecie, al fine di verificare il potenziale pericolo rappresentato dalla possibilità di utilizzo delle armi possedute, e deve estrinsecarsi in una congrua motivazione, che consenta in sede giurisdizionale di verificare la sussistenza dei presupposti idonei a far ritenere che le valutazioni effettuate non siano irrazionali o arbitrarie (C.d.S., sez.III, 10 ottobre 2014 n.5039 e 31 marzo 2014, n.1521; nello stesso senso, sez.VI, 10 maggio 2006, n.2576).

Va altresì considerato che la Corte costituzionale, con la sentenza 16 dicembre 1993 n.440, ha sancito l’illegittimità dell’onere di provare la buona condotta posto a carico dell’interessato, in quanto in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione.

Il requisito di buona condotta rappresenta la base per vari giudizi di affidabilità devoluti all’autorità amministrativa e, come tale, non può essere giudicato in se stesso lesivo di quei principi di ragionevolezza ai quali l’ordinamento è tenuto ad ispirarsi.
Esso consiste in un comportamento da valutare discrezionalmente nella sua globalità. La valutazione, che consiste nella formulazione di una prognosi sul futuro comportamento del soggetto preso in considerazione, deve ancorarsi ad elementi di apprezzamento funzionali all’abilitazione richiesta; altrimenti detto, ed in termini più chiari, gli elementi di giudizio che l’Amministrazione possiede possono essere presi in considerazione solo se incidenti sull’interesse pubblico specifico che l’eventuale diniego mira a tutelare.

E’ solo la possibile lesione di questo interesse pubblico, al quale la condotta amministrativa deve costantemente uniformarsi, che assicura la legittimità al provvedimento reiettivo nel quale l’apprezzamento della condotta è correlato con il tipo di abilitazione o autorizzazione richiesta.

Per essere esente da vizi di illogicità o irrazionalità, la valutazione di buona condotta deve:

• avere di mira l’interesse pubblico specifico che la norma disciplinante il rilascio del titolo intende tutelare;
• dar rilievo non a qualunque condotta dell’interessato, ma a quei soli comportamenti – dotati o meno di rilievo penale – che, in quanto correlati al tipo di abilitazione richiesta, consentano di formulare una prognosi di lesione dell’interesse pubblico specifico preso in considerazione dalla norma;
• evitare l’addebito esclusivamente imperniato su pregresse condanne assolutamente non preclusive (né correlate col tipo di abilitazione richiesta) di fatti penalmente rilevanti (sentenze C. Cost. n.440 del 1993 e n.311 del 1996);
• evitare valutazioni sugli orientamenti politici degli aspiranti al titolo o su condotte riconducibili ad una dimensione della sfera della vita e della libertà individuale, ovvero “privata” (sentenza C. Cost. n.311 del 1996);
• considerare, nel procedimento valutativo del requisito, il valore – significativo o meno, ai fini del rilascio del titolo, di fatti sopravvenuti favorevoli all’interessato (sentenza C. Cost. n.440 del 1993 e Cons. Stato, sez.IV, n.186 del 1987);
• operare una specificazione finalistica, riferita alle particolari esigenze che l’accertamento deve soddisfare per le finalità correlate al tipo di abilitazione o autorizzazione richiesta (sentenze C. Cost. n.7 del 1966 e n.440 del 1993);
• tener conto dei requisiti attitudinali o di affidabilità per il corretto svolgimento della funzione o dell’attività, desunti da condotte del soggetto interessato anche diverse da quelle aventi rilievo penale e accertate in sede penale (sentenze C. Cost. n.440 del 1993 e n.311 del 1996);
• conferire rilievo alle condotte di conviventi solo ove associati ad altre ostatività proprie dell’interessato, che facciano apparire logico e ragionevole il complessivo giudizio di valore di segno negativo operato dall’amministrazione (sentenza C. Cost. n.108 del 1994);
• valutare e considerare le condotte aventi attinenza col tipo di abilitazione richiesta, ove episodiche (ad esempio, remoto precedente per furto, in relazione alla licenza per gestire una depositeria di autoveicoli), solo se appaiono ragionevolmente suscettibili di incidere attualmente (e cioè nel momento in cui il requisito della condotta assume rilievo) sull’affidabilità del soggetto in ordine al corretto svolgimento della specifica funzione o attività (sentenza C. Cost. n.311 del 1996).

Quest’ultimo profilo, attinente alla necessaria attualità delle condotte da cui viene desunta la non affidabilità del soggetto, caratterizza il caso trattato e la valutazione del provvedimento impugnato in termini di incongruità e di incoerenza, in particolare con la revoca prefettizia del divieto di detenzione delle armi, disposta in ragione della mancanza di fatti ulteriori – successivi a quelli per i quali il richiedente era stato indagato in plurimi procedimenti penali, tutti però assai risalenti – tali da far desumere a suo carico un rischio di abuso delle armi.

La mancanza di tali fatti ulteriori e il carattere risalente delle condotte illecite, oltre alla riabilitazione ottenuta, sono elementi dei quali l’Autorità di P.S. avrebbe dovuto tenere adeguatamente conto, motivando specificamente sul perché tali elementi non bastavano ai fini di un giudizio prognostico positivo sul richiedente, o sul perché essi erano recessivi rispetto ai fattori negativi valorizzati dalla P.A..

L’assenza di tali motivazioni, piuttosto che l’apparente contraddizione tra le valutazioni del Questore e quelle svolte dal Prefetto, ha indotto il Consiglio di Stato a ravvisare nell’istruttoria una carente disamina di quei fattori che depongono a favore di una non più attuale ‘inaffidabilità’ dell’istante.


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