Non sussiste alcun obbligo del Comune di assumere a carico del proprio bilancio i debiti societari rimasti insoddisfatti all’esito della procedura di liquidazione.

Il Comune deve motivare le ragioni di interesse pubblico che giustificano la scelta discrezionale di accollo dei debiti non soddisfatti al termine della procedura di quidazione della società partecipata.

La natura di società in house non implica deroghe alla disciplina civilistica sulla responsabilità per le obbligazioni sociali.

Corte dei conti, Sez. reg. di controllo per la Liguria, delib. 28 novembre 2013, n. 82/2013, Pres. Colasanti, Rel. Belsanti

Il quesito

Un Comune ligure chiede alla Corte dei conti  di sapere se l’Ente, azionista totalitario di una società “in house”, debba o possa farsi carico dei debiti della società partecipata che residuano al termine della procedura di liquidazione e che non hanno trovato soddisfacimento sul patrimonio dell’organismo societario risultato insufficiente a garantire i creditori.

Il parere

La Sezione ligure, con il parere che si annota, conferma la giurisprudenza contabile consolidata secondo cui in capo all’Ente locale non sussiste alcun obbligo di farsi carico dei debiti della società partecipata in liquidazione qualora il patrimonio di quest’ultima non sia in grado di soddisfare le pretese creditorie (ex plurimis: Sezione controllo Basilicata, delibera n.28/2011; Sezione controllo Emilia Romagna, delibera n.33/2011; Sezione controllo Lombardia delibere n.380/2012, n.535/2012; n.98/2013; n.337/2013; Sezione controllo Veneto, delibera n.434/2012).

Per la Sezione, tale obbligo non sussiste neppure nel caso di società in house: in questa tipologia di società pubblica, infatti, il particolare rapporto che intercorre con il Comune non giustifica una disciplina diversa da quella comune, ma solo la deroga alle disposizioni comunitarie in materia di tutela della concorrenza.

La Corte non esclude che il Comune, con una scelta  di carattere gestionale – discrezionale, possa accollarsi i debiti della società partecipata in liquidazione, ma avverte che in questo caso l’Ente dovrà evidenziare la sussistenza di un interesse pubblico concreto che possa giustificare l’operazione giuridica ed economica messa in atto.

Conclusioni

Il parere, come annota la stessa Corte, si basa sulla considerazione che la partecipazione di un soggetto pubblico ad una società non ne fa venire meno la sua natura di soggetto privato. Ciò comporta che alla società pubblica si applica la disciplina civilistica, salvo i casi regolati diversamente dal legislatore.

La disciplina speciale pur esistente per le cosiddette società pubbliche, in altri termini,  “non ha assunto le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sè stante ma continua ad apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale, sia pure con ampio ambito di applicazione “ (Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 23 novembre 2013 n. 26283)

Ne consegue che, se nel “diritto speciale” delle società pubbliche, non si rinvengono espresse deroghe, deve applicarsi la regola civilistica, secondo cui per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio salvo le limitate eccezioni previste dallo stesso codice civile (es. art. 2325 e artt. 2497 e ss. cc).

 Per la Sezione di controllo ligure queste considerazioni valgono anche nel caso di debiti di una società in house in liquidazione, in quanto la  disciplina speciale di queste società si esaurirebbe nelle modalità degli affidamenti, possibili in deroga alla normativa comunitaria in materia di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, e non coinvolgerebbe altri aspetti.

 Il parere della Sezione ligure, ineccepibile, se riferito, in linea generale, alle società pubbliche, si presta ad ulteriori riflessioni nel caso di società in house.

 E’ opportuno ricordare, come ormai ben delineato nell’ordinamento comunitario e in quello nazionale,  che è qualificabile come in house una società che presenti nello statuto sociale tutti e tre i seguenti requisiti (ex multis, Corte di Giustizia, sentenza Teckal del 18 novembre 1999, Carbotermo 304/04 del 2006, Cordite Brabant 324/07 del 2007; Consiglio di Stato, sentenze n. 5808/2009; 8970/2009, 7092/2010 e 1447/2011; AP 1/2008; Cote dei conti sentenza n. 546/2013; Cassazione, Sezione Unite civile, ordinanze n. 8352 del 2013 e 10299 del 2013, sentenza  n. 26283 del 2013; Corte cost. , sentenze n. 438 del 2008 e n. 46 del 2013; art. 113 del TUEL n. 267 del 2000 s.m.):

 (a) totale partecipazione pubblica, con divieto di cessione delle quote societarie a privati per espressa previsione statutaria;

 (b)esercizio della parte più importante dell’attività sociale per l’ente o gli enti pubblici partecipanti, con valutazione sulla prevalenza non esclusivamente di tipo quantitativo ma anche qualitativo, e con possibilità di esercizio delle sole attività accessorie strumentali a quella del servizio di interesse economico generale svolto in via principale;

c) sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici e servizi, con posizione di comando e possibilità di dettare non solo le scelte strategiche ma anche quelle operative, cui corrisponde una posizione di subordinazione gerarchica all’ente pubblico degli organi amministrativi della società

Con sentenza depositata il 25 novembre scorso, le Sezioni Unite Civili hanno ritenuto che la società in house non possa qualificarsi come entità distinta, centro d’interesse diverso dallo stesso ente pubblico partecipante, ma che questo organismo finisca per avere solo la forma esteriore della società, mentre in realtà sia una mera articolazione non autonoma della pubblica amministrazione da cui promana. Ciò non tanto per mancanza del fine di lucro, ma soprattutto per l’assenza di un potere decisionale proprio,  l’assoggettamento degli organi al potere di comando degli enti pubblici titolari della partecipazione, e l’impossibilità di configurare il  patrimonio societario in un rapporto di totale distinzione da quello dell’ente pubblico partecipante.

Da tale peculiare configurazione si possono ricavare due corollari: uno relativo agli amministratori e l’altro al  patrimonio della società. Primo. Gli amministratori della società, proprio per essere preposti ad un’articolazione della pubblica amministrazione, con cui si trovano in subordinazione gerarchica, finiscono per essere legati con quest’ultima da un vero e proprio rapporto di servizio. Secondo. Il patrimonio della società, per le stesse motivazioni, è sempre riconducibile all’ ente pubblico, pur rimanendone distinto. Tutto ciò giustifica, per la Cassazione,  a differenza di quanto la stessa Cassazione sostiene  per le altre società pubbliche, l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità per danno  procurato al patrimonio da mancanza di controllo da parte degli amministratori (Cass. Sezioni Unite Civili, n. 26283 del 2013, cit.).

Le motivazione di questa sentenza della Suprema Corte potrebbero arricchire di altre riflessioni il tema dell’accollo da parte dell’ente pubblico dei debiti non soddisfatti delle società in house in liquidazione. Se si ritiene, infatti, che la società in house non sia un’entità distinta dall’ente pubblico partecipante, che i suoi amministratori siano legati all’ente pubblico da un rapporto di servizio e che il patrimonio della società, pur separato, sia sempre riconducibile all’ente pubblico, la possibilità di quest’ultimo di accollarsi i debiti della propria in house, da scelta discrezionale diventa un atto dovuto. A tale obbligo il comune – socio difficilmente potrebbe sottrarsi dinnanzi alle pretese dei creditori rimasti insoddisfatti per insufficienza del patrimonio sociale a conclusione del procedimento di liquidazione. Impregiudicata, com’è ovvio, la relativa responsabilità degli amministratori per danno erariale derivanti dalla loro mala gestio.

Giuseppe Panassidi


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