IN POCHE PAROLE….

La scelta di ridurre il punteggio per il lavoro part time, collegato in misura preponderante al genere femminile, incide astrattamente su entrambi i sessi ma realizza una discriminazione indiretta di genere.


Corte di Cassazione, Civile, Sez. L, sentenza 29 luglio 2021, n. 21801, Pres. Raimondi, Est. Spena


Sussiste una discriminazione indiretta di genere «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso…».


A margine

La ricorrente impugna in cassazione la sentenza n. 551/2016 della Corte d’appello di Torino che ha respinto la sua domanda di accertamento della discriminazione indiretta di genere operata dal datore di lavoro nella selezione per la progressione economica alla posizione F2, in relazione al criterio di computo del punteggio per «esperienza di servizio maturata».

In particolare, la Corte territoriale riteneva che la previsione del bando che prevedeva che la «esperienza di servizio» venisse calcolata per i lavoratori part time riproporzionando i periodi di servizio alla minore attività lavorativa svolta, non producesse un effettivo svantaggio per i lavoratori di genere femminile, in quanto il criterio del riproporzionamento del punteggio si applicava a tutti i lavoratori part-time, indipendentemente dal genere.

Ad avviso della Corte, sebbene fosse incontestato che tra i lavoratori part time le donne escluse dalla progressione erano in numero maggiore degli uomini, ciò non era l’effetto, diretto o indiretto, del criterio di selezione ma del fatto che all’interno del gruppo dei lavoratori part time le donne erano in percentuale di gran lunga maggiore.

Pertanto la ricorrente si rivolge alla Corte di Cassazione evidenziando che rientrano nella nozione di discriminazione indiretta — di cui all’articolo 25, comma due, D.Lgs. n. 198/2006 — i criteri di selezione dei lavoratori suscettibili di produrre un effetto sperequato in danno di un genere rispetto all’altro, nonostante la neutralità del criterio adottato. Sotto questo profilo, l’istituto del part time è collegato in misura preponderante al genere femminile, che se ne avvale quale modalità di lavoro più compatibile con le necessità familiari; pertanto la scelta di ridurre il punteggio per il lavoro part time incideva astrattamente su entrambi i sessi ma realizzava una discriminazione indiretta di genere.

La sentenza – Il collegio cassa la sentenza evidenziando che, nella fattispecie, la lavoratrice non denunciava una discriminazione diretta (come ravvisata dalla Corte territoriale) ma una discriminazione indiretta, caratterizzata dal carattere apparentemente neutro della disposizione censurata e dall’effetto di particolare svantaggio da essa prodotto per i titolari del fattore protetto, sicché la verifica non andava compiuta avendo riguardo al «trattamento» ma all’ «effetto» discriminatorio.

In particolare, l’articolo 25, comma 2, D.Lgs. n. 198/2006 ravvisa una discriminazione indiretta di genere «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso…».

Secondo la Corte di Giustizia, l’esistenza di tale posizione di svantaggio può essere dimostrata provando che la stessa colpisce negativamente in proporzione significativamente maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell’altro sesso. (Corte di Giustizia, sent. 3 ottobre 2019 in causa C-274/18 Schuch-Ghannadan, punto 45; sent. 8 maggio 2019, in causa C 161/18, Vi.Vi.La, punto 38).

Per fare ciò il giudice, nel caso in cui disponga di dati statistici, deve in primo luogo prendere in considerazione l’insieme dei lavoratori assoggettati alla disposizione di cui si dubita individuando, nell’ambito dei destinatari della stessa, in quale percentuale dei lavoratori di sesso maschile vi erano soggetti colpiti (in quanto part time ) o non colpiti (in quanto full time) ed in quale percentuale delle lavoratrici di sesso femminile vi erano dipendenti colpite (part time) o non colpite (full time).

All’esito di tale raffronto, l’effetto discriminatorio emergerebbe se i dipendenti part time colpiti dal criterio di selezione fossero costituti in percentuale significativamente prevalente da donne.

Da ultimo, il collegio rileva che l’obiettivo di apprezzare in misura puntale l’esperienza di servizio è in sé legittimo rammentando, tuttavia, come, secondo la Corte di Giustizia, «l’affermazione secondo la quale sussiste un nesso particolare tra la durata di un’attività professionale e l’acquisizione di un certo livello di conoscenze o di esperienze non consente di elaborare criteri oggettivi ed estranei ad ogni discriminazione. Infatti, sebbene l’anzianità vada di pari passo con l’esperienza, l’obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto, segnatamente dalla relazione tra la natura della funzione esercitata e l’esperienza che l’esercizio di questa funzione apporta a un certo numero di ore di lavoro effettuate» (Corte di Giustizia, sent. 3 ottobre 2019 cit., punto 39).

Il giudice del merito, nell’ipotesi di accertato «effetto discriminatorio», dovrà dunque valutare se nel contesto delle mansioni svolte dalla ricorrente, esista o meno un nesso tra l’esperienza acquisita con l’esercizio della funzione ed il numero delle ore di lavoro svolte (Corte di Giustizia, sent. da ultimo citata, punto 40 e punto 50), con onere della prova a carico dell’INPS.

di Simonetta Fabris


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