I permessi riconosciuti dal comma 3, art. 33, della L. n. 104/1992, non hanno una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza al familiare disabile e non possono essere goduti fuori dei tempi di assistenza prestata

Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, sentenza-n-17968-del-13-settembre-2016, Presidente Macioce, Relatore Blasutto

A margine

Nella vicenda, una dipendente di un comune, licenziata per aver utilizzato i permessi ex art. 33, L. n. 104/1992, per recarsi a frequentare lezioni universitarie anziché per assistere la madre disabile, ricorre in Cassazione.

La ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3 e smi, affermando che la Corte di appello ha erroneamente ritenuto che l’attività di assistenza al disabile dovesse essere prestata in coincidenza temporale con la fruizione dei permessi accordati dal datore di lavoro.

A suo avviso, se tale requisito fosse stato richiesto, il legislatore lo avrebbe espressamente previsto e ciò, sia alla luce della L. n. 53 del 2000, che ha abolito il requisito della convivenza mantenendo i requisiti della continuità e della esclusività della assistenza, che della L. n. 183 del 2010, che ha eliminato il requisito della continuità dell’assistenza prestata al disabile. Pertanto la norma non delineerebbe un obbligo di contemporaneità della prestazione di assistenza al disabile con la fruizione dei permessi ma piuttosto una funzione “compensativa” delle cure ed incombenze prestate in momenti temporali diversi dalla fruizione del permesso per consentire al lavoratore di recuperare, attraverso il riposo, le energie spese per l’assistenza in tempi diversi da quelli per cui il permesso è stato richiesto al datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato.

Il collegio ricorda che il diritto di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3 di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito spetta al “lavoratore dipendente… che assiste persona con handicap in situazione di gravità…” ed è riconosciuto dal legislatore in ragione dell’assistenza, la quale è causa del riconoscimento del permesso. Tale essendo la ratio del beneficio e in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile.

Nessun elemento testuale o logico consente di attribuire al beneficio citato una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza prestata. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata. Il beneficio comporta infatti un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute come meritevoli di superiore tutela quali l’assistenza al partente disabile. Ove tale nesso causale manchi del tutto, come nel caso in esame, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.

Pertanto “in tema di esercizio del diritto di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un’attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un’assistenza comunque prestata. L’uso improprio del permesso può integrare, secondo le circostanze del caso, una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a giustificare anche la sanzione espulsiva”.

di Simonetta Fabris


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