La regola dell’anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi risulta effettivamente violata quando il segno apposto dal candidato è utilizzato intenzionalmente ed è idoneo al riconoscimento.

Consiglio di Stato, sezione quinta, 17 gennaio 2014, Presidente Pajno, estensore Tarantino

Sentenza n. 202-2014

Il caso

Nel 1986 un comune bandisce un concorso per un posto di architetto. Al termine della procedura, il secondo classificato propone ricorso al Tar, chiedendo l’annullamento della delibera di consiglio comunale che approva i verbali di concorso e nomina il vincitore. In particolare, il ricorrente lamenta la violazione del principio di segretezza nella correzione degli elaborati avendo il vincitore firmato, seppure con un nome inventato, una delle due prove.

Il Tar Basilicata, con sentenza n. 184 del 19 marzo 2001, accoglie il ricorso ritenendo che la sottoscrizione dell’elaborato, con il nominativo di fantasia “Paolo Portoghesi”, comporti una violazione del principio dell’anonimato.

Con l’appello in esame, il soggetto decaduto dalla posizione di vincitore chiede la riforma della pronuncia di primo grado.

Più precisamente, esso nega la violazione del principio dell’anonimato non ritenendo ravvisabile la sua intenzione di rendere riconoscibile l’elaborato. In aggiunta, la giurisprudenza amministrativa escluderebbe dal novero dei segni di identificazione l’uso di nomi di fantasia.

Il comune, costituito in giudizio, afferma che il giudice di primo di grado avrebbe operato una scorretta applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di segni di riconoscimento dei candidati. Conseguentemente chiede di accogliere l’appello.

La sentenza

Per risolvere la questione il Consiglio di Stato richiama la propria giurisprudenza, la quale ha delineato più volte i principi cardine su cui si fonda la regola dell’anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi ovvero:

  • l’idoneità del segno al riconoscimento del candidato e
  • il suo utilizzo intenzionale.

Più precisamente, in riferimento alla prima condizione: “ciò che rileva non è tanto l’identificabilità dell’autore dell’elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l’astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l’autore dell’elaborato” (Consiglio di  Stato, sez. V, 11 gennaio 2013, n. 102; nello stesso senso, sez. V, 20 ottobre 2008, n. 5114 e 20 settembre 2006, n. 5511).

Tale presupposto, nel caso in esame non sussiste, in quanto il nome di fantasia utilizzato, una sola volta, richiama quello di un celebre collega architetto, nell’ambito di una simulazione pratica di un atto tipico di quella professione.

Da ultimo, in merito alla seconda condizione, il collegio ricorda la necessità di elementi inequivoci, atti a provare l’intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato (Consiglio di Stato, sez. V, 1 aprile 2011, n. 2025). Anche tale ipotesi non risulta provata.

In conclusione, il collegio non ritiene violata la regola dell’anonimato. Per tali ragioni accoglie l’appello e riforma la sentenza di primo grado.

La valutazione della sentenza

Con la pronuncia in esame il giudice amministrativo torna ad esaminare la regola dell’anonimato nei pubblici concorsi.

Tale criterio, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 26 del 20 novembre 2013, rappresenta un’applicazione diretta del principio costituzionale di uguaglianza, di buon andamento e d’imparzialità della pubblica amministrazione e ha valenza generale.

Il tema, prima della pronuncia sopracitata, era caratterizzato da due orientamenti giurisprudenziali riferiti:

  • all’esclusione del candidato che abbia inteso rendersi riconoscibile alla commissione, e
  • all’amministrazione che abbia strutturato delle modalità di svolgimento non idonee a garantire il principio di anonimato per tutti i candidati.

I giudici di Palazzo Spada hanno chiarito che le due fattispecie rispondono a logiche diverse.

In particolare, nel primo caso, soltanto se vi è un’intenzionalità “desunta, per via indiretta o presuntiva, dalla natura in sé dell’elemento riconoscibile e dalla sua suscettibilità oggettiva di comportare la riferibilità dell’elaborato stesso a un determinato soggetto”, il candidato può essere legittimamente escluso. (Consiglio di Stato, sez. V, 1 aprile 2011, n. 2025).

Nel secondo caso, invece, si produce l’illegittimità dell’intera procedura comparativa in quanto si mette in pericolo il bene protetto dalle regole stesse ovvero la garanzia di par condicio tra i candidati.

Il principio dell’anonimato negli elaborati scritti non può comunque essere inteso in modo tanto tassativo ed assoluto da comportare l’invalidità delle prove ogni volta che sussista un’astratta possibilità di riconoscimento, perché, se così fosse, sarebbe materialmente impossibile svolgere concorsi per esami scritti, in quanto non si potrebbe mai escludere a priori la possibilità che un commissario riconosca una particolare modalità di stesura. (Consiglio di Stato, 1 ottobre 2002, n. 5132).

di Simonetta Fabris


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