In caso di annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo di inquadramento di pubblico dipendente, che abbia determinato ingiustificati oneri per l’Erario, non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico all’intervento in autotutela, in quanto tale interesse è in re ipsa ed è quello a risparmiare e ad evitare spesa non giustificata derivante “dall’indebita corresponsione dei maggiori emolumenti rinvenienti dalle progressioni di carriera.
In tali casi non rileva il tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento, considerato che non possono essere configurati diritti quesiti ed intangibili in favore del soggetto a causa dello status professionale acquisito da un lungo lasso di tempo trascorso, in quanto un tale tipo di diritti non può certo sorgere in base ad atti illegittimi.”
L’annullamento d’ufficio degli inquadramenti illegittimi motivato con l’esigenza di “evitare il perpetuarsi del danno erariale è doveroso ,”
TAR Basilicata, sez. I, sentenza 10 luglio 2015, 428, Pres. Italo Riggio, Est. Benedetto Nappi.
Il caso
Con la sentenza annotata, il TAR Basilicata ha rigettato il ricorso di una dipendente in servizio presso l’Università degli Studi della Basilicata avverso il provvedimento della stessa Università di annullamento d’ufficio degli inquadramenti professionali relativi alle procedure di progressione economica verticali (P.E.V.) conclusasi nell’anno 2005. Tale inquadramento riguardava il passaggio dalla categoria C alla categoria D, posizione economica D1, area amministrativa-gestionale.
La sentenza
Gli elementi del rigetto si sostanziano su questi elementi:
– inadempimento dell’obbligo di previa programmazione del fabbisogno di personale da destinare a una determinata categoria (D);
– violazione del principio, di rilievo costituzionale, dell’accesso mediante concorso pubblico agli impieghi presso le PA, tali da garantire in misura almeno paritetica, rispetto ai posti da ricoprire tramite procedure di riqualificazione professionale riservate al personale interno già in servizio;
– imprescrittibilità del provvedimento di riqualificazione del personale al fine di “evitare il perpetuarsi del danno erariale” indebitamente corrisposto al personale inquadrato illegittimamente nelle categorie professionali superiori;
– ricorso al provvedimento amministrativo di secondo grado (autotutela) quale comportamento doveroso della PA per ripristinare l’assetto organizzatorio e finanziario della pubblica amministrazione entro l’alveo della legittimità.
L’art. 35, co 1, del d.lgs 30 marzo 2001, nr. 165 disciplina la metodologia delle assunzioni nelle PA che non può non avvenire tramite procedure selettiva tale da garantire l’accesso dall’esterno in misura non superiore del 50% dei posti da coprire calcolati su base annua.
A seguire l’art. 52, co 1 bis, dello stesso decreto n. 165 del 2001 definisce il concetto di mansione enumerando pure la qualifica superiore acquisita mediante lo sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive (progressioni economiche verticali). Sempre dello stesso tenore l’art. 57 del C.C.N.L. dd. 9 agosto 2000 comparto Università alla voce “progressione verticale nel sistema di classificazione” stabilisce che nelle procedure selettive per l’accesso a ciascuna categoria venga riservata un’adeguata partecipazione dall’esterno fissando la percentuale non superiore al 50% dei posti da ricoprire su programmazione annuale.
Tale norme trovano il suo fondamento giuridico nell’art. 97 della Costituzione che dispone la regola generale di accesso ad ogni tipo di pubblico impiego “mediante concorso salvo i casi stabiliti dalla legge” compreso il passaggio ad un categoria professionale superiore in quanto definita “mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione”.
La predetta sentenza rammenta l‘istituto dell’autotutela quale comportamento di doverosità da parte della PA al fine di ripristinare la legalità violata a causa di illegittimi inquadramenti i cui effetti giuridici hanno causato un’indebita erogazione di denaro pubblico oltre che a privare a coloro che, in possesso dei prescritti requisiti di legge, la possibilità di partecipare a procedure concorsuali pubbliche per l’ammissione ai pubblici impieghi.
Riconosce inoltre l’imprescrittibilità del provvedimento acclarato illegittimo in quanto l’art. 1, co 136, della legge nr. 311 del 2004 e la direttiva del 17 ottobre 2005 emanata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funzione pubblica, definiscono l’ambito di applicazione ai casi in cui l’atto di annullamento trovi il suo fondamento giuridico nella finalità individuata al conseguimento del risparmio o di minori oneri finanziarie per le pubbliche amministrazioni pubbliche. La logica giuridica consiste nell’evitare il perpetuarsi del danno erariale causato dalla indebita corresponsione di maggiori emolumenti rinvenienti dalle progressioni di carriere nonché dalla perdurante attualità della lesione dell’interesse pubblico conseguente ai duraturi e continui effetti negativi sull’organizzazione amministrativa e sui costi di gestione del personale derivanti da tali inquadramenti illegittimi.
La violazione del principio costituzionale relativo al mancato accesso al pubblico impiego del personale esterno inficia in “origine” il provvedimento di inquadramento di dipendenti in categorie più elevate anche a seguito dell’applicazione dell’art. 36 c. 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 che stabilisce “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.
A margine
La sentenza è di particolare interesse poiché afferma il perdurante potere della PA di emanare un provvedimento di secondo grado (annullamento d’ufficio) senza alcuna specifica motivazione, laddove il provvedimento sia finalizzato ad “evitare il perpetuarsi del danno erariale”, derivante “dalla indebita corresponsione dei maggiori emolumenti rinvenienti dalla progressioni di carriera” dovuto ai maggiori oneri finanziari a carico della PA; ciò, anche indipendentemente dal lasso di tempo trascorso dal provvedimento iniziale di riqualificazione del personale (anno 2005).
L’annullamento d’ufficio comporta la perdita di efficacia, con effetto retroattivo, del provvedimento di inquadramento del personale inficiato dalla presenza in “origine” di una violazione di un principio costituzionale che sancisce l’obbligo di accesso al “pubblico impiego mediante procedura concorsuale pubblica. L’amministrazione, quindi, avrebbe dovuto programmare il fabbisogno del personale e bandire in misura paritaria i posti da destinare al personale interno mediante la procedura selettiva di riqualificazione e i posti da destinare all’esterno mediante procedura concorsuale pubblica.
L’aspetto interessante della pronuncia è dunque quello di ritenere ancora operante l’istituto dell’annullamento d’ufficio c.d. “doverso” a fronte dell’indebita erogazione di vantaggi economici a favore di dipendenti pubblici, nonostante le attuali previsioni dell’art. 21 nonies della l.n. 241/1990 – come riformato dalla l. nr. 124/2015 – neghino che l’annullamento dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici possa essere disposto dopo i diciotto mesi dalla loro emanazione, con ciò presupponendo il definitivo superamento di quella prassi interpretativa che negava la sussistenza di limiti temporali in siffatte ipotesi.
La pronuncia in esame si pone quindi in continuità con l’orientamento per cui “in caso di indebita erogazione di denaro pubblico l’affidamento del percettore delle somme e la stessa buona fede non sono di ostacolo all’esercizio da parte dell’Amministrazione, del potere dovere di recupero, in linea con il canone costituzionale di buon andamento né l’Amministrazione è tenuta a fornire un’ulteriore motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile all’interessato o all’interesse pubblico al recupero, che è rinvenibile in re ipsa (art. 97 Cost)” (da ultimo, cfr. Cons. Stato Sez. III, 3 dicembre 2015, nr. 5486).
Rispetto all’orientamento tradizionale, che collega la necessità dell’annullamento al doveroso recupero di somme erogate sine titulo (entro la logica dell’indebito oggettivo), la sentenza in esame si segnala per il fatto di collegare l’annullamento alla necessità di evitare un danno erariale, spostando quindi l’accento sull’esigenza di un contenimento della spesa pubblica mediante il razionale e lecito utilizzo delle risorse necessarie alla gestione dei rapporti di pubblico impiego. Ciò, senza dare quindi un particolare rilievo alla posizione del pubblico dipendente che abbia ottenuto dei benefici comunque illeciti.
Resta da verificare la compatibilità di questa forma di annullamento doveroso con le attuali prescrizioni dell’art. 21 nonies, comma 1, della l. nr. 241/1990: infatti, o si ritiene che in questo caso il limite dei diciotto mesi dall’emanazione del provvedimento inibisca l’esercizio di potere di autotutela, oppure, che il limite dei diciotto mesi valga solo per i cc.dd. annullamenti discrezionali (finalizzati alla migliore realizzazione dell’interesse pubblico primario sotteso alla norma attributiva del potere di emanare il provvedimento annullato) mentre non operi per i cc.dd. annullamenti doverosi (finalizzati ad evitare danni erariali).