Il parere legale fornito all’ente pubblico, seppure espresso tramite una consulenza legale di carattere riservato, basata sul rapporto privatistico intercorrente tra professionista e cliente, è soggetto all’accesso quando è richiesto in funzione endoprocedimentale ed è richiamato nella motivazione dell’atto finale.
Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 29 maggio 2014, Presidente N. Monteleone, Estensore A. Lento
Il caso
La vicenda nasce dalle note con cui un comune, sulla base di un parere legale formulato dal proprio ufficio, ritiene applicabile la disciplina sulla riduzione degli emolumenti da corrispondere agli apparati amministrativi, ex art. 6, c. 2 del d.l. n. 78-2010, anche agli organi collegiali di un consorzio cui lo stesso partecipa.
Il consorzio chiede all’ente una copia del parere citato al fine di conformare la propria azione ai suoi contenuti.
Il comune, tuttavia, nega l’accesso affermando che il parere in esame è stato espresso “nell’ambito di un procedimento amministrativo nell’interesse dell’amministrazione comunale”.
Il consorzio ricorre quindi al Tar per ottenere l’annullamento del diniego e l’esibizione dei documenti.
L’ente pubblico si costituisce in giudizio.
La sentenza
Il Tar Palermo ritiene il ricorso fondato.
Per risolvere la controversia, il giudice di primo grado ricorda l’orientamento giurisprudenziale consolidato per cui vanno sottratti all’accesso i pareri redatti dai legali e dai professionisti in relazione a specifici rapporti di consulenza con l’amministrazione, in quanto trattasi di ipotesi di segreto che godono di una tutela qualificata, come indicato dalla specifica previsione degli artt. 622 c.p. [1] e 200 c.p.p. [2].
Quando però la consulenza legale si inserisce all’interno di un’apposita istruttoria procedimentale, per cui il parere reso è richiamato nella motivazione dell’atto finale, lo stesso, pur traendo origine da un rapporto privatistico, normalmente caratterizzato dalla riservatezza della relazione tra professionista e cliente, è soggetto all’accesso, perché oggettivamente correlato ad un procedimento amministrativo (tra i tanti, Consiglio di Stato, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 7237).
Pertanto, essendo il parere in questione finalizzato a chiarire la normativa applicabile agli emolumenti da corrispondere agli organi collegiali del consorzio, il Tar lo ritiene ostensibile e condanna l’amministrazione alla sua esibizione annullando il precedente diniego.
La valutazione della sentenza
Con la sentenza in esame il Tar Palermo analizza la questione, molto dibattuta in giurisprudenza, dell’accessibilità degli atti interni ad un procedimento amministrativo.
La disciplina di riferimento della materia è oggi rinvenibile all’art. 22, c. 1, lettera d), l. n. 241-1990 laddove il legislatore definisce “documento amministrativo”:
“ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
La norma conferma l’accessibilità degli atti interni dotati della capacità di incidere formalmente su situazioni giuridiche.
Va ricordato che, prima della riforma della l. n. 15-2005, la nozione di atto interno accessibile ha ispirato due linee interpretative.
L’indirizzo più restrittivo riteneva ostensibili solo gli atti interni considerati dalla legge come elementi necessari di un procedimento (come i pareri obbligatori e i nulla osta) in quanto capaci di incidere sul contenuto finale dell’atto, condizionandone la legittimità. Per contro, gli atti interni frutto di attività discrezionale della p.a. (come i pareri tecnici di professionisti esterni) avrebbero dovuto restare esclusi.
Il secondo filone interpretativo premeva invece per un’applicazione piena del diritto di accesso e considerava accessibile qualsiasi tipo di atto interno, indipendentemente dalla sua capacità di rilevare all’esterno.
Oggi, l’art. 22, stabilendo espressamente l’accessibilità anche degli atti non relativi ad uno specifico procedimento sembra aver recepito quest’ultimo orientamento.
Prima del 2005, si desumeva poi che l’accesso potesse riguardare, oltre ai provvedimenti, anche gli atti preparatori del procedimento che concorressero a determinare il contenuto finale dell’atto. La novella del 2005 non ha chiarito la questione ma l’accessibilità di tali atti continua ad essere confermata “a contrario” dall’art. 24, c. 1, lettere b) e c) che esclude il diritto di accesso quando si tratti di attività della p.a. diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché nei procedimenti tributari.
di Simonetta Fabris
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[1] Art. 622 c.p. – Rivelazione di segreto professionale
1. Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516.
2. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società.
3. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.
[2] Art. 200 c.p.p. – Segreto professionale
1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria:
a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;
b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;
c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;
d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga.
3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni.