Essendo la funzione di Presidente del Consiglio comunale di carattere istituzionale e non politico, la relativa revoca può essere causata solo dal cattivo esercizio della funzione, tale da comprometterne la neutralità, non potendo essere motivata sulla base di una valutazione fiduciaria di tipo strettamente politico.

Consiglio di Stato, sez. V – sentenza 26 novembre 2013 n. 5605 Pres.Torsello, Est. Franconiero

Il caso

Un soggetto ricorre in appello per la riforma della sentenza con cui il Tar ha confermato la revoca dall’incarico di presidente del consiglio comunale.

L’ex presidente sostiene l’illegittimità della revoca in quanto fondata esclusivamente su ragioni politiche, legate alla ricomposizione della maggioranza consiliare a seguito della fuoriuscita del rispettivo partito.

La revoca, a suo dire, sarebbe stata disposta al di fuori dei casi previsti dagli artt. 39, 42 e 52 (relativo, questo, alla mozione di sfiducia nei confronti del sindaco) del D.Lgs n. 267/2000 e dai principi generali desumibili dal medesimo testo unico.

Dal complesso di tali disposizioni è infatti desumibile che la rimozione del presidente dell’organo consiliare può essere adottata solo per atti contrari alla legge o per specifiche violazioni commesse nello svolgimento delle funzioni, eventualità che, per il ricorrente, sarebbero, nel caso di specie, insussistenti.

La giurisprudenza consolidata in materia

Il Consiglio di Stato per risolvere la questione richiama la propria giurisprudenza in materia, dalla quale sono desumibili i seguenti corollari:

– essendo la funzione del Presidente del Consiglio comunale di carattere istituzionale e non politico, la revoca non può che essere causata dal cattivo esercizio di tale funzione, tale da comprometterne la neutralità, non potendo essere motivata sulla base di una valutazione fiduciaria di tipo strettamente politico (sentenza 25 novembre 1999, n. 1983);

  la figura del presidente dell’organo consiliare è posta dall’ordinamento degli enti locali a garanzia del corretto funzionamento dell’organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca “non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità, e dev’essere motivata perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non ad un rapporto di fiduciarietà politica” (sentenza 6 giugno 2002, n. 3187);

– la revoca esprime valutazioni di carattere “latamente politico”, in funzione di ricomporre “l’ordinato assetto dei rapporti istituzionali tra gli organi di indirizzo politico-amministrativo del comune”, ogniqualvolta “risulta alterato il ruolo di garante imparziale assegnato dal presidente” (sentenza 4 marzo 2004, n. 1042);

 possono costituire ragioni legittimamente fondanti la revoca tutti quei comportamenti, tenuti o meno all’interno dell’organo che, costituendo violazione degli obblighi di neutralità ed imparzialità inerenti all’ufficio, sono idonei a fare venire meno il rapporto fiduciario alla base dell’originaria elezione del presidente (sentenza 18 gennaio 2006, n. 114).

Il Consiglio di Stato sottolinea quindi l’incontestabile rilievo istituzionale della funzione di presidente del consiglio, figura che trascendente gli equilibri politici, di garante del regolare funzionamento di quest’ultimo e dell’ordinato svolgersi della dialettica tra le forze politiche in esso presenti.

Altrettanto pacifico è che sia l’elezione a presidente del consiglio comunale che la relativa revoca esprimono una scelta fiduciaria delle forze politiche rappresentate nell’organo consiliare, con la quale queste, rispettivamente, convergono verso una personalità in grado di rispondere alle suddette necessità istituzionali o, al contrario, manifestano il ripensamento della scelta iniziale.

Da qui l’orientamento ormai consolidato secondo cui la revoca (come del resto l’elezione) trae origine da apprezzamenti di carattere politico e tuttavia non esprime una scelta libera nei fini, dovendo comunque sempre porsi nel solco del perseguimento di finalità normative di garantire la continuità della funzione di indirizzo politico-amministrativo del comune. In più, la revoca non può prescindere da fatti specifici inerenti la carica, ancorché gli stessi non siano commessi nell’esercizio delle funzioni presidenziali, e dalla conseguente valutazione che i componenti dell’organo da tali fatti traggono in ordine alla persistente validità dell’investitura iniziale.

Ciò premesso, il giudice amministrativo fa presente che l’atto di revoca va esaminato per apprezzarne la congruenza rispetto al suddetto fine, attraverso l’esame delle tipiche figure sintomatiche dell’eccesso di potere, quali, in particolare, la carenza di motivazione, il travisamento dei fatti, la contraddittorietà tra fatti e decisione, l’ingiustizia ed illogicità di quest’ultima.

Nello specifico, il giudice è chiamato ad espletare una duplice verifica:

  1. in primo luogo, ad accertare l’effettiva sussistenza dei fatti, affinché la revoca non si fondi su presupposti inesistenti o non adeguatamente esternati nel provvedimento;
  2. in secondo luogo, ad apprezzare la non arbitrarietà e plausibilità della valutazione politica in forza della quale l’organo consiliare ritiene che i suddetti fatti influiscano negativamente sull’idoneità a ricoprire la funzione. Quest’ultimo apprezzamento si dovrà tuttavia limitare a verificare solo l’evidente irragionevolezza ed ingiustizia della decisione, pena lo sconfinamento del sindacato giurisdizionale in ambiti riservati ad opinabili, ma non per questo illegittime, valutazioni politico-discrezionali.

La sentenza

La V Sezione del Consiglio di Stato verifica se il giudice di primo grado abbia effettuato una puntuale disamina delle ragioni esternate nella delibera impugnata, in particolare se abbia correttamente riscontrato che i fatti contestati fossero sussistenti ed, inoltre, se gli stessi possano ragionevolmente rilevare ai fini della perdita di fiducia nei confronti del vertice istituzionale dell’organo consiliare.

In particolare, i fatti alla base della revoca consisterebbero:

– nell’avere posto in votazione, in più sedute consiliari, deliberazioni tra loro contrastanti;

– nell’avere assunto la carica di vice-segretario provinciale del partito di appartenenza in seguito all’elezione a presidente del consiglio comunale ed avere espresso in più occasioni “pesanti apprezzamenti sull’operato della Giunta e del Sindaco”;

– nel non avere presieduto una seduta consiliare, dallo stesso ricorrente convocata, ed avere dichiarato pubblicamente le ragioni di tale decisione: “per non vedere lo spettacolo indegno offerto da questa autodifesa dell’Assessore di fronte ad una debacle palese;

– nell’avere dichiarato a verbale l’intenzione di non presiedere i lavori consiliari in prossimità della trattazione di una mozione di sfiducia nei confronti di un assessore “come gesto di distensione, e per una questione di dignità personale e politica”.

Dal canto suo, il ricorrente eccepisce i fatti di cui sopra sostenendo che:

– rispetto alla votazione di deliberazioni contrastanti, nessuno dei presenti, compresi i vertici amministrativi del comune che assistevano alla seduta, avrebbe rilevato il contrasto, essendo questo emerso solo in seguito;

– relativamente alla dichiarazione di non volere presiedere una seduta a causa dell’ “indegnità dello spettacolo che si sarebbe consumato”, tale circostanza non troverebbe riscontro in alcun atto ufficiale.

Da ultimo, in relazione agli allontanamenti dalle sedute, il ricorrente osserva, facendo riferimento a dati ufficiali, di esser stato tra i consiglieri maggiormente presenti sia per il 2009 che per il 2010; gli unici allontanamenti sarebbero stati determinati da motivi di salute, senza con ciò aver influito sul regolare andamento dei lavori.

Nell’esaminare, uno per uno, i fatti contestati, il Collegio sottolinea che, con riferimento alla votazione di mozioni in contrasto tra loro, sono effettivamente condivisibili le doglianze dell’appellante, in quanto nessuno dei partecipanti alla seduta (né i consiglieri di maggioranza, né quelli di minoranza, né i funzionari amministrativi) ha rilevato il contrasto.

Tale anomalia risulta, infatti, essere stata accertata solo successivamente dal segretario generale, su impulso di un consigliere comunale.

Su questo primo punto il Consiglio di Stato rinviene quindi un’evidente illogicità di un giudizio di parzialità e quindi di incapacità a svolgere le funzioni del presidente dell’organo consiliare.

Peraltro, il contrasto logico di deliberazioni, secondo il collegio, costituisce un’evenienza che ben può avvenire in qualsiasi consesso politico, a causa del succedersi di emendamenti posti in votazione sul relativo oggetto, ma dai quali non è possibile automaticamente dedurre la volontà di favorire alcuna parte politica o di attentare alla funzionalità dell’organo.

Parimenti, risulta destituita di fondamento una revoca basata sull’assunzione, nel corso del mandato, di un incarico all’interno del partito di appartenenza. Tale circostanza non ha, infatti, alcun rilievo ai fini del giudizio sull’idoneità a conservare le funzioni di presidente del consiglio comunale, trattandosi di fatto del tutto estraneo alle esigenze di rappresentanza istituzionale e di funzionalità del consiglio comunale.

Da sottolineare, infine, anche l’assenza di ricadute sulla funzionalità dell’organo per ripetuti e prolungati allontanamenti dai lavori consiliari, grazie alla figura, istituzionalmente prevista, del vicepresidente.

Malgrado queste premesse, il Consiglio di Stato respinge l’appello in quanto ravvisa nelle pubbliche esternazioni dell’appellante la perdita manifesta della propria posizione di neutralità quale presidente del consiglio comunale.

Tali dichiarazioni, apparse su quotidiani nazionali e locali, e riportate a verbale delle sedute consiliari, contengono infatti giudizi critici circa l’indirizzo del sindaco e della giunta.

Ad esse hanno fatto altresì seguito decisioni personali di abbandonare la presidenza nonché avvertimenti nei confronti dei colleghi circa possibili iniziative giudiziarie per ottenere il risarcimento dei danni in caso di revoca.

In breve, da tali documentazione appare incontestabile la posizione di forte contrasto politico assunta dal ricorrente, ed espressa attraverso giudizi di incapacità nell’attendere all’ordinaria amministrazione, nonché in inviti, nei confronti di singoli assessori, ad impegnarsi di più o in trancianti dichiarazioni circa lo stato dell’amministrazione comunale “allo sbando e senza guida”.

In questo quadro, rileva, in particolare, quanto dichiarato dall’appellante per giustificare la volontaria tardiva assunzione della presidenza di una seduta consiliare: “per non vedere lo spettacolo indegno offerto da questa autodifesa dell’assessore (…) ad una debacle palese”.

O ancora, per motivare la volontà precisa di non voler presiedere altra seduta consiliare “come gesto di distensione, e per una questione di dignità personale e politica”

Secondo il giudice amministrativo, queste precisazioni, sostanziandosi in dichiarazioni non richieste, riecheggianti lo scontro creatosi nella coalizione politica di maggioranza, dimostrano senza dubbio una perdita del ruolo di rappresentante neutrale dell’istituzione consiliare.

Da tale comportamento consegue infatti una palese violazione del dovere di estraneità che il presidente del consiglio comunale deve mantenere rispetto alla dialettica delle forze politiche in esso rappresentate.

In sintesi, queste dichiarazioni, connotando un notevole appannamento del ruolo istituzionale della carica presidenziale, possono legittimamente fondare la decisione di revoca.

Il Consiglio di Stato rigetta pertanto l’appello sottolineando che eventuali giudizi di critica politica sono ammissibili per i soli consiglieri, in quanto complessivamente riconducibili alle tipiche prerogative di controllo politico sull’amministrazione (ex art. 43 Tuel), risultando evidentemente preclusi al rappresentante istituzionale del consiglio.

Il presidente del consiglio deve infatti rimanere estraneo alla contesa politica, sia nell’esercizio della funzione presidenziale, che in qualità di esponente di un partito politico presente in consiglio: se così non fosse verrebbero meno quelle esigenze di tutela della stabilità della carica istituzionale rispetto a possibili arbitri delle altre forze partitiche.

Il commento

La sentenza conferma il ruolo fondamentale attribuito dalla disciplina positiva al presidente del consiglio, in qualità di garante del regolare funzionamento dell’assemblea, di equilibrio nei rapporti tra gruppi politici, di rispetto dei diritti di ciascun consigliere.

In questo senso, come ha osservato la giurisprudenza, la figura si colloca in una particolare posizione, essendo titolare di una funzione di “carattere neutrale, di garanzia del corretto funzionamento dell’istituzione in quanto tale” , che non è “definita dal rapporto di fiduciarietà politica con la maggioranza, né è strumentale all’attuazione di un indirizzo politico” (così, tra le tante, Tar Campania, sez. I, 3 maggio 2012, n. 2013).

Sulla base di ciò, l’orientamento prevalente esclude la legittimità della revoca motivata da ragioni politiche, diverse dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità.

In tal modo la revoca dall’incarico si caratterizza quale sfiducia “istituzionale”, non come sfiducia politica e, in questo, si differenzia decisamente da quella, dai connotati nettamente fiduciari e politici, che caratterizza la rimozione degli assessori.

Alcune pronunce, poi, precisano che la revoca del presidente del consiglio deve essere prevista dallo statuto; mentre il regolamento può disciplinare solo il procedimento (così CGAS, 31 dicembre 2007, n. 1175; contra Tar Veneto, sez. I, 8 febbraio 2010, n. 334); altre ancora arrivano a ridimensionare il ruolo dello statuto, fino a sostenere l’ammissibilità della revoca anche nel silenzio di questo (così Tar Lazio, sez. II-bis, 21 gennaio 2010, n. 710).

Differentemente, altra posizione minoritaria accentua fortemente il ruolo dello statuto in materia, tanto da affermare che lo stesso potrebbe prevedere la revoca anche per rottura del rapporto di consonanza politica con la maggioranza assembleare, eventualmente derivante, da gravi vicende personali che si riflettano oggettivamente sulla credibilità e sul prestigio della carica, o da iniziative dannose per l’ente e la sua immagine (Tar Lombardia, Milano, sez. I, 14 dicembre 2011, n. 3150).

Rimane comunque esclusa, per contrasto con imprescindibili principi costituzionali, ogni ipotesi di revoca per il fatto che il presidente abbia agito con imparzialità nel garantire i diritti della minoranza.

Da ultimo, il procedimento di revoca deve prevedere una fase di contradditorio, previa contestazione degli addebiti, mentre è discussa la necessità di una maggioranza qualificata.

Stefania Fabris – Emanuele Compagno


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