Nell’ambito dell’attività di ristorazione è venuta a consolidarsi una tipologia di offerta che prevede la possibilità di preparare pasti presso il domicilio del cuoco o comunque in un appartamento privato, con la somministrazione ad un numero ristretto di soggetti terzi, considerati come ospiti paganti, che hanno risposto ad un annuncio prenotando il pasto via internet o telefono.

Si tratta di un’attività non necessariamente organizzata da professionisti del settore, ma da soggetti che mettono a disposizione pochi coperti in determinate serate e di conseguenza sono, almeno teoricamente, destinati ad un guadagno non particolarmente significativo e che pertanto non sarebbero soggetti a particolari regimi autorizzatori.

In realtà, non può non considerarsi che la somministrazione di alimenti e bevande resta disciplinata in primo luogo dalla legge 25 agosto 1991 n.287, così come modificata dal d.lgs. 26 marzo 2020 n.59 e s.m.i., la quale distingue tra attività esercitate nei confronti di un pubblico indistinto (art.1) e attività riservate a particolari soggetti (art.3).

Detta legge, all’art.1 co.1, dispone che “per somministrazione si intende la vendita e il consumo sul posto”, che si esplicita in “… tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati”.

Pertanto, sulla base della risoluzione n.50481 del 10 aprile 2015 e del parere del 7 settembre 2016 (nota n.282881) del Ministero dello Sviluppo Economico, condivisi dall’Ufficio per gli Affari Generali della Polizia Amministrativa e Sociale del Ministero dell’Interno – Dipartimento della P.S. (nota del 14 ottobre 2016) l’attività in questione, “anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela”.

Risoluzione MISE n.50481 del 10 aprile 2015

A fortiori si osserva che “la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo e, quindi, anche con l’innovativa modalità, l’attività in discorso si esplica quale attività economica in senso proprio”.

Ne deriva che, salvo casi di svolgimento in modo del tutto occasionale ed episodico, l’attività in questione, in quanto rivolta ad un pubblico indistinto, non può che essere classificata – allo stato della legislazione ed in mancanza di una disciplina specifica – quale esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande, perciò soggetto alla relativa disciplina commerciale, fiscale, igienico-sanitaria e di pubblica sicurezza.

Quest’ultima comporta, in linea di principio, la soggezione ai controlli e agli eventuali poteri sanzionatori ed interdittivi dell’Autorità di P.S. comuni a tutti gli esercizi pubblici, che tuttavia devono coniugarsi con la peculiarità dell’esercizio di un’attività commerciale presso l’abitazione del titolare.

Tale situazione per la tutela approntata dalla legge al domicilio delle persone, costituisce un obiettivo ostacolo all’esecuzione dei controlli di polizia amministrativa. Per questa ragione l’Amministrazione, in presenza di esercizi soggetti a regime di polizia amministrativa statale ubicati presso private abitazioni, quando è da riconoscere la loro ammissibilità, ha sempre posto due condizioni, date dalla effettiva separazione/separabilità dei locali utilizzati quale sede dell’impresa da quelli costituenti l’abitazione del suo titolare nonché da una formale dichiarazione di disponibilità di quest’ultimo ad acconsentire comunque l’accesso degli operatori di polizia nella sua dimora, negli orari consueti, per l’esecuzione dei controlli previsti sulla generalità degli esercizi similari.

E’ evidente, infatti, che il mancato rispetto di tali condizioni consentirebbe agli interessati di sottrarsi con facilità ai controlli di polizia o di renderli sostanzialmente impossibili o inutili, facendo leva sulle tutele che l’ordinamento appresta per le private dimore; inoltre risulterebbe compromessa se non preclusa l’efficacia o la possibilità stessa di provvedimenti interdittivi dell’attività in caso di abusi (ordini di sospensione o di cessazione), di fatto esonerandolo dal regime amministrativo di pubblica sicurezza con un ingiustificato regime di favore rispetto agli esercizi di ristorazione collocati “sulla pubblica via”, in locali univocamente destinati all’esercizio dell’attività d’impresa.

Circ. Min. Int. 557 PAS del 14 ottobre 2016

Da ciò discende l’opportunità di adottare accorgimenti che permettano di contemperare i controlli di polizia con le tutele previste per le private dimore, quali:

  • separazione/separabilità dei locali utilizzati quale sede dell’impresa da quelli costituenti l’abitazione del suo titolare o quantomeno evitare la promiscuità di utilizzo durante la presenza dei commensali paganti;
  • formale dichiarazione di disponibilità dell’esercente l’attività ad acconsentire comunque l’accesso degli operatori di polizia nella sua dimora, specie nei classici orari di apertura degli esercizi di somministrazione;
  • specifica ed inequivoca indicazione del luogo di esercizio dell’attività.

Di contro, risulta privo di una qualche ragionevole utilità, sotto il profilo della pubblica sicurezza, applicare agli home restaurants un regime di sorvegliabilità analogo a quello concepito per tutt’altro genere di esercizi (es. sale bingo), e quindi di problematiche, dal D.M. n.564 del 1992.

“Infatti, l’attività di home restaurant atteggia in termini del tutto particolari le stesse esigenze di p.s. che non possono ritenersi equivalenti a quelle presenti, invece, per i classici esercizi pubblici aperti sulla pubblica via, che affondano la loro rilevanza per l’ordine e la sicurezza pubblica nell’essere luoghi di ritrovo di un numero indeterminato e potenzialmente considerevole di persone, alle quali – tra l’altro – l’esercente non può vietare l’accesso senza un legittimo motivo, ex art.187 reg. Tulps, di assai problematica applicazione nella fattispecie.

Per tale ragione, sotto il rigoroso profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica, e quindi escludendo ogni considerazione in tema di tutela della salute, dell’igiene e dell’incolumità pubblica, l’attività in questione non espone a problematiche significativamente maggiori o diverse dalle comuni cene ad inviti presso abitazioni private, fermo restando il potere di accesso degli operatori di p.s. a cui si è fatto cenno.

Neppure pare che l’oggettiva incompatibilità tra gli esercizi in discorso e la disciplina della sorvegliabilità possa minimamente giustificare la tesi estrema della loro inammissibilità per conflitto con la legislazione di p.s., con le cui esigenze sostanziali invece non appare affatto confliggere in sé, tanto più alla luce degli indirizzi generali della legislazione degli ultimi anni in tema di attività economiche, tutta orientata alla propulsione e alla dinamicità del sistema, superando tutte le barriere e le restrizioni amministrative non rispondenti ad effettivi criteri di adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità”.

Diverso è il discorso per quanto attiene alla normativa igienico-sanitaria e alla necessità di prevedere che lo chef a domicilio sia assoggettato ai requisiti HACCP e a tutto quell’insieme di procedure che mirano a garantire la salubrità, il maneggiamento e la somministrazione degli alimenti.

A tal proposito vanno richiamate la Direttiva 1993/43/CEE, che è stata recepita in Italia con il d.lgs. n.155 del 1997, che ha reso l’HACCP indistintamente obbligatorio per tutta la filiera alimentare, nonché il Regolamento CE 852/2004, entrato in vigore nel gennaio del 2006 ed attuato in Italia con il d.lgs. n.193 del 2007, con il quale sono state previste per la prima volta le sanzioni per inadempienza alle disposizioni dell’Haccp.
Resta aperta la questione della legittimità degli accessi da parte del personale di p.s. in caso di esercizio di fatto dell’attività di home restaurant, senza il formalizzato consenso da parte dell’esercente l’attività, vieppiù in situazioni contingenti di emergenza epidemiologica, come quelle attuali.

Basti pensare alle più recenti misure anticovid-19, disposte con il D.P.C.M. del 3 novembre u.s., che prevedono

  • per le cc.dd. zone verdi la chiusura di bar e ristoranti alle 18, con apertura domenicale per il solo pranzo;
  • per le cc.dd. zone arancioni la sospensione dei servizi di ristorazione (bar, pub, ristoranti, gelaterie e pasticcerie, con esclusione di mense, catering e ristorazione a domicilio;
  • per le cc.dd. zone rosse la chiusura dei servizi di ristorazione (bar, pub, ristoranti, gelaterie e pasticcerie) eccetto la ristorazione con consegna a domicilio e (fino alle ore 22.00) la ristorazione con asporto.

DPCM 3 novembre 2020

Ove non risultasse possibile operare controlli presso i cc.dd. home restaurants si determinerebbe, evidentemente, il rischio di una concorrenza sleale e di un aggiramento delle misure anti-contagio, con le conseguenze facilmente immaginabili per quanto concerne la tutela del bene costituzionale ‘salute’.

Di fatto, comunque, anche una forzata assimilazione alle ‘cene private’ della suddetta attività non vanificherebbe del tutto la possibilità di operare i controlli sugli avventori all’esterno della struttura (individuabile in forza della pubblicità per lo più diffusa mediante i social network), anche in forza delle altre misure previste dal DPCM in argomento che prevede, già a partire dalle ore 22.00 e fino alle 05.00, la limitazione della circolazione delle persone senza giustificato motivo (lavoro, necessità e salute), da attestare con autocertificazione.

 

 


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