Il primo comma dell’art. 43 T.U.L.P.S. stabilisce che non può essere concessa la licenza di portare armi:

a) chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;

b) a chi ha riportato condanna o pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all’autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico;

c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra anche se amnistiata, o per porto abusivo di armi.

Sui profili applicativi della norma si è recentemente pronunciata la sez.I del Consiglio di Stato (adunanza n. 3257/2014) affermando che a fronte della sussistenza dei reati indicati non residua alcuna discrezionalità in ordine al rifiuto o alla revoca delle licenze di competenza.

Cons. Stato sez.I n.3257-2014

La richiesta di parere in commento si era resa necessaria a causa di orientamenti non univoci in sede di giurisprudenza amministrativa.

Il primo, basato su un’interpretazione letterale dell’art. 43 T.U.L.P.S., escludeva in termini inequivoci la discrezionalità in capo all’Amministrazione ed escludeva altresì l’efficacia rispetto ai reati sopra indicati dall’effetto dell’istituto della riabilitazione, prevista dall’art.178 c.p.

Il secondo indirizzo proponeva una lettura evolutiva della disposizione in parola, soprattutto laddove si trattasse di condanne molto risalenti, successivamente alle quali l’interessato non fosse più incorso in episodi tali da far dubitare della sua affidabilità.

Secondo tale ultima disposizione, nel rilascio/rinnovo della licenza anche per le ipotesi di cui al primo comma dell’art. 43 T.U.L.P.S., l’Amministrazione avrebbe mantenuto un potere di valutazione discrezionale, trovando altresì applicazione agli effetti dell’istituto della riabilitazione.

Il parere reso dal Supremo Consesso, risolvendo il dubbio interpretativo, evidenzia che il testo della disposizione non lascia alcuna alternativa al diniego – o alla revoca – della licenza di porto d’armi in ipotesi di condanna per i reati ivi indicati, né vi sono altre disposizioni – in particolare quelle sugli effetti della riabilitazione – che consentono deroghe. La riabilitazione, infatti, estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti, mentre il divieto al rilascio della licenza di porto d’armi previsto non è un effetto penale della condanna, la quale piuttosto funge da elemento preclusivo in base ad una presunzione assoluta di inaffidabilità all’uso delle armi, come si evince sia dal raffronto tra primo e secondo comma dell’art. 43 T.U.L.P.S., sia dalla tipologia dei delitti presi in considerazione (circ. n.557/leg/225.00 del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, datata 28 novembre 2014).

Il secondo comma dell’art. 43 T.U.L.P.S. stabilisce che la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi.

Con sentenza 16 dicembre 1993 n. 440, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale ultima previsione nella parte in cui pone a carico dell’interessato di provare la sua buona condotta.

Ne consegue che ogni valutazione relativa al comportamento del richiedente il titolo di polizia va ricondotta obbligatoriamente ad un giudizio di affidabilità dell’interessato di non abusare delle armi. In particolare, la licenza va rilasciata soltanto a quelle persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse, in modo da scagionare dubbi e perplessità sotto il profilo dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività. Già a tal fine, il Ministero dell’Interno con nota n.559/C2961/12982.D.1 del 16 febbraio 1985, aveva precisato come in via generale e di massima i giudizi sulla condotta, e quindi sull’affidabilità del soggetto, vanno desunti non solo dalle risultanze informative degli uffici giudiziari competenti ma anche “dalla valutazione del complesso dei comportamenti tenuti dall’interessato in famiglia, nell’ambiente di lavoro e in pubblico, dalla qualità delle persone frequentate, dai rapporti interpersonali e dal regime di vita”.

Per quanto riguarda la specifica disciplina autorizzatoria del porto d’armi, sempre in tale circolare, venivano, in aggiunta, raccomandati “accertamenti più severi, relativi alla condizione psichica, litigiosità, tendenza all’alcolismo, ecc.”.

Ne deriva la necessità che il parere degli uffici di polizia deve contemporaneamente tener conto delle motivazioni addotte dall’interessato, il quale sarà tenuto a documentare esaurientemente il dichiarato bisogno di andare armato.

Tale ultimo aspetto non può correlarsi esclusivamente ai dai relativi alla professione esercitata o al reddito o al volume di affari dichiarato, non essendo tali dati necessariamente ed esclusivamente costitutivi di un dimostrato bisogno se non rapportati alla situazione generale dell’ordine pubblico nel territorio della provincia e ad eventuali minacce o episodi di violenza in cui l’interessato è incorso e che devono trovare puntuale rispondenza presso gli atti d’ufficio.

Le consistenti disponibilità patrimoniali dichiarate o documentate dall’interessato non potranno, quindi, da sole, costituire una situazione a rischio, soprattutto se tale elemento non si evidenzia sufficientemente a livello pubblico, così come non può costituirla il solo esercizio di una professione (ad esempio medico chirurgo, rappresentante, ecc.) se non supportata da ulteriori elementi posti a dimostrazione di un vero e proprio bisogno di andare armati.

Analoga insussistenza dei presupposti sembra potersi evincere dalle istanze motivate con l’esercizio dell’attività di autista o accompagnatore, in quanto costituiscono evidenti riferimenti ad una vigilanza privata sulle persone, non ammessa dalla normativa vigente. Lo stesso dicasi per la casistica dei dipendenti di imprese addetti ad operazioni bancarie di depositi prelevamenti o di coloro che sono costretti a viaggiare anche di notte con ingenti somme di denaro se tali situazioni non vengono esaurientemente comprovate da specifici accertamenti d’ufficio e si limitano invece alla sola dichiarazione del datore di lavoro, che non può costituire estrinsecazione del “dimostrato bisogno” di cui all’art. 42 T.U.L.P.S.


Stampa articolo